Intervista ad Alessandro Sardelli
Un interprete pasoliniano
Alessandro Sardelli si è messo in luce lo scorso anno interpretando un credibili Pino Pelosi nella Macchinazione di David Grieco, che ricostruiva il delitto Pasolini. Ora è in uscita con Manuel, un dramma che ha al centro alcuni ragazzi cresciuti in un riformatorio, presentato all’ultima mostra del cinema di Venezia. Lo abbiamo incontrato e oltre a scoprire che cita a memoria Accattone, abbiamo trovato in lui un ragazzo con le idee molto chiare…
Toglimi, prima di tutto, una curiosità, Alessandro: ma nel tuo film in uscita, Manuel, ha un ruolo anche… io la conosco come Monica Sellers, che era il suo nome d’arte qualche anno fa, mentre adesso usa il suo cognome vero, Carpanese?
Sì, sì, c’è anche lei. Fa una educatrice. Una parte piuttosto importante.
Spiegami che film è Manuel e qual è il tuo personaggio?
Io faccio uno degli amici stretti del protagonista, Manuel, interpretato da Andrea Lattanzi. Mi chiamo Robertino e ho dei piccoli precedenti penali. La storia, infatti, è ambientata in un casa-riformatorio e noi siamo diversi ragazzi con un vissuto difficile alle spalle. Diciamo che non ho un ruolo centralissimo, ma sono una delle figure che ruotano attorno a Manuel. Lattanzi poi uscirà dal riformatorio e si ritroverà a fare i conti con il mondo di fuori. Con una madre che sta per ottenere gli arresti domiciliari. Quindi, nonostante lui esca, è come se fosse sempre imprigionato.
Il film è l’opera prima di Dario Albertini, che ha lavorato coi Tiromancino ed è un ottimo documentarista…
Sì, l’idea di questo film gli è nata girando un documentario, La repubblica dei ragazzi, che è il nome di un noto riformatorio che si trova a Civitavecchia. Molte cose in Manuel sono ispirate alla vita vera di un ragazzo che ha vissuto in questa comunità.
Da quel che mi dici, Robertino, il tuo personaggio in Manuel, è un po’ sulla linea di quello di Pino Pelosi, che hai interpretato lo scorso anno nella Macchinazione di David Grieco, no?
Sì, un pochino sì.
Ecco ripercorriamo la strada che ti ha portato al ruolo di Pelosi nella Macchinazione. Quella è stata la tua grande occasione, no? Il film che ti ha subito lanciato…
Sono sempre stato appassionato di cinema, fin da piccolo, ma non avrei mai pensato di fare l’attore. Mi piace il neorealismo e Pasolini, soprattutto. Il suo cinema lo conoscevo bene e mi affascinava moltissimo la sua filosofia, gli attori presi dalla strada, la sua capacità di mettere in scena non solo gli aspetti negativi della borgata, ma anche la genuinità, la verità… Per la Macchinazione, tutto è cominciato quando ho visto un annuncio su facebook. Un amico mi aveva segnalato che c’erano dei provini sulla Tiburtina, da Antonio Spoletini. Sono andato e ho fatto un incontro conoscitivo. C’erano 450 ragazzi per quel ruolo, che io non sapevo ancora che fosse quello di Pino Pelosi. Mi richiamano dopo una settimana, faccio un altro provino. E a quel punto mi dicono che ero stato scelto per fare il coprotagonista del film. Capirai…
A tutto pensavi tranne che a un ruolo grosso…
Certo! Pensavo A una comparsa, a una cosa piccola. E invece. Anche perché era la prima volta che recitavo, non avevo fatto corsi o cose del genere.
Quindi ti sei buttato proprio senza rete?
Sì, sì. Il regista, David Grieco, era rimasto colpito dal fatto che fossi molto spontaneo. Gli serviva uno esattamente come me. Uno con una “genuinità spavalda”. Quando mi chiese chi fossero i miei attori preferiti, gli risposi Franco Citti e Ninetto Davoli e rimase molto colpito che io li conoscessi. I ragazzi oggi è difficile che si ricordino di loro… Ma io sono cresciuto con Accattone e quella frase: “Vojo mori’ co’ tutto l’oro addosso, come li faraoni” non la scorderò mai.
Ma questa tua formazione cinefila come è nata?
Mio padre è appassionato di cinema come me, anche se la mia famiglia non c’entra nulla con il mondo dello spettacolo: papà è elettricista, mamma casalinga. Provengo da una famiglia umile, operaia.
E una volta a bordo, come hai affrontato l’interpretazione di Pelosi? Ti hanno dato della documentazione per studiare la sua vita, la sua storia?
In realtà, io conoscevo la vicenda, anche se un’idea precisa su quello che successe quarant’anni fa non me la sono fatta. La macchinazione racconta una tesi del regista, come si sa. Io mi sono guardato varie interviste di Pelosi, anche recenti, prima che morisse lo scorso anno. Questo mi è servito per studiare il suo modo di parlare, di atteggiarsi. Molto ho lavorato poi sull’immaginazione. Ho pensato come potesse reagire un ragazzo di sedici anni che veniva ingoiato in una situazione più grossa di lui. La teoria del film è che lui fosse innocente e si fosse trovato incastrato in un questo meccanismo che lo ha stritolato.
Dopo La macchinazione hai girato un corto, Bruciateli vivi…
Lo abbiamo presentato all’International Tour Film Festival, a Civitavecchia. Il regista è Luca Guerini e come attore c’è anche Pietro Fornaciari, che ha fatto Ovosodo e altri film. Anche qui interpreto la parte di un ragazzo in un certo senso difficile, che frequenta compagnie non belle, beve, fuma. Un giorno, però, decide di dare fuoco ai suoi libri, nei quali si riconosceva, e di aggregarsi a un eremita, interpretato da Pietro Fornaciari. Vuole diventare frate e scrivere una storia su questo cambiamento. Questa è stata la prima volta in cui ho dovuto recitare un personaggio diverso, un ragazzo di famiglia abbiente, che parla con una dizione non romana. Ed è stata una bella sfida per me.
Mi sembra quindi di capire che quelli che ti interessano non sono i generi commerciali, ma dei film con tematiche forti, introspettive…
Sì, è vero. Ma anche la commedia non mi dispiace se fatta in modo intelligente. Nella Macchinazione stessa, io faccio una parte drammatica ma nello stesso tempo sono anche un po’ comico. Anche se, a dire la verità, il mio sogno sarebbe quello di fare il cattivo in assoluto. Nel cinema americano, i film neri, di gangster, sono quelli che amo di più.
I tuoi progetti immediati, dopo la promozione di Manuel?
Ho presentato da poco, al cinema Scipioni, un altro corto, intitolato Rincorrersi, di Federico Papagna, dove interpreto un amico del protagonista, un ragazzo che vorrebbe sfondare nel mondo della musica, della canzone, ma che si scontra con l’ostilità del padre. Io faccio questo suo migliore amico che ha dovuto affrontare un conflitto famigliare simile per diventare un calciatore. A maggio girerò un promo per una serie televisiva, per una piattaforma molto importante. Non posso rivelare ancora niente, ma sarà un bel personaggio, uno dei principali. Da poco ho terminato un videoclip con un cantautore romano, Emilio Stella, dove faccio un tizio trendy, che vuole mostrarsi per quello che non è.
Non ti ho chiesto qual è la tua “tecnica” di recitazione? Tu sei un attore spontaneo, non arrivi da esperienze accademiche…
No, infatti. Ho frequentato un corso da poco, da qualche mesetto, che mi è servito per credere in me e per conoscere il limite massimo dove posso arrivare. Ma, per dire, se devo affrontare una situazione drammatica, mi concentro e penso alle cose negative. Nella scena dell’interrogatorio, nella Macchinazione, dove dovevo piangere, il regista mi aveva detto che avrebbe usato del mentolo. Io preferii fare senza e mi è bastato pensare a un lutto che avevo avuto pochi mesi premi per farmi spuntare le lacrime. Questa cosa sono in grado di farla più volte, mi basta rievocare quella emozione…
Possiamo quindi dire che la tua formazione e la tua provenienza riflettono perfettamente quel tipo di attori che usava Pier Paolo Pasolini?
Sì, è vero…