L’Esorcista – due visioni di un esorcismo
Theatrical e Director's cut a confronto
La versione director’s cut de L’Esorcista esce in Italia il primo dicembre del 2000. Al tempo, in Iraq, il sanguinario dittatore Saddam Hussein non è ancora stato accusato dall’America di nascondere un arsenale nucleare sotto le montagne irachene; quelle stesse montagne che Padre Merrin scava nel 1971 (anno in cui si svolgono i fatti del film di Friedkin e il romanzo di Blatty).
Merrin è in cerca di ninnoli e utensili antichi ma finisce che si rigira pensoso tra le dita consunte e tremanti una moneta di San Giuseppe (poi finita nelle mani insanguinate di Padre Karras) e la testa di una statuetta del demone Pazuzu.
Al tempo del primo esorcista, Hussein non è ancora il capo indiscusso del proprio paese ma è l’ombra vorace del vecchio e malato al-Bakr, capo del partito Ba’thista e presidente della Repubblica babilonese. Mentre la piccola Regan sputa litri di vomito in faccia a Padre Karras, le montagne dell’Iraq non sono quindi ancora fatte di carne e sangue dei cadaveri del terrorismo interno applicato da Hussein e i suoi uomini; sono fatte di terra e vento e visioni inquietanti che si stagliano contro il sole accecante. L’Iraq tutto è solo un posto curioso, esotico, stregonesco e perfetto per generare inquietudine folk nel mondo occidentale che invece affronta i propri mostri luciferini dopo secoli di timorate inquisizioni prima spagnole e poi viennesi.
Nel 1971-73, l’Iraq non è nemmeno un luogo così cruciale per la politica e soprattutto l’economia americana. Ci sono solo uomini con l’aria da Mille e una notte, sfiniti dal caldo e i lavori pesanti. Fissano Padre Merrin senza dire nulla ma è come se gli dicano tutto. Non sono attori, è gente vera. Però non rispecchiano il reale stato di un paese che in quel momento è in una fase di grande progresso tecnologico e modernizzazione sociale. Le donne si vedono riconoscere un fracco di nuovi diritti, per dire. E nel prologo de L’Esorcista di Friedkin non se ne incontra quasi nessuna. E lo sguardo curioso dei fabbri, i vecchi patriarchi seduti al bar o le guardie è vuoto, forse proiettato al futuro, ai cadaveri dei propri nipoti, nei primi anni 90, quando il tenente Kinderman si ritroverà invece a risolvere per la seconda volta i delitti del serial killer Gemini Killer nella lugubre e diabolica Georgetown; un posto dove nessuno vorrebbe mai trasferirsi, a meno che non sia un iracheno. Il 1990 infatti farà molta più paura l’Iraq. In questo senso la scelta di Blatty di pescare Satana in quel posto trent’anni prima del gran casino che avverrà, è profetica o se volete portatrice di grande sfiga.
Padre Merrin negli anni 70 ci incontra il diavolo, in Iraq, tutto qui. O meglio, Pazuzu, che, qualsiasi cosa sia, osa comunque definirsi “il diavolo” dalla bocca screpolata di una malabimba indotta a peccare tosto per dimostrare a tutti che Lui esiste. Non sapremo mai se si tratti di un solo demone, nessuno o centomila, a rovinare quel corpicino. Merrin lo nega e il motto «Ci chiamano Legione, perché siamo in molti» potrebbe essere solo l’ennesima citazione pescata dalle letture disordinate di Pazuzu durante lo sproloquio vernacolare lungo mezzo film; alla stregua de «La plume de ma tante!», per capirci.
La scena iniziale del film, già lunga nella versione originale, è ancor più prolungata nella nuova edizione 2000, ma non aggiunge praticamente nulla. Solo un altro buon chilo di atmosfera sospesa. E il discorso degli undici minuti complessivi in più, che a inizio millennium bug spingono i distributori italiani a parlare di “versione integrale dell’horror più sconvolgente di sempre”, in fondo sono quasi solo dei raccordi, piccoli e superflui movimenti narrativi di passaggio che non ci conducono da nessuna parte rispetto a dove Friedkin riusciva già a portarci nel 1973. Persino la scena del ragno sulle scale è in fondo troppo baracconesca e volgare; e già di schifezze e buffonerie disgustose ne abbiamo in abbondanza in camera da letto della piccola, no? Il numero aracneo è vistoso e mette troppo in anticipo davanti alla certezza che il problema della bambina non sia dovuto a turbe psicotiche ma a Satanasso.
E come quella scena, Friedkin toglie anche tutte le immagini flash del volto di Pazuzu, che nel cut del ’73 si vede giusto un paio di volte, quasi a livelli ritmici da pubblicità subliminale; mentre in quello del 2000 abbondano. Paz diventa infatti una specie di gatto del Cheshire ubiquo: è sul piano della cucina, sulle porte, sui volti dei personaggi… solo che così l’effetto incredibile del sogno di Karras si diluisce in una stracciatella quasi comica di “bubbusettete!” in stile Kabuki satanico.
Il finale invece è un discorso separato. In quello originale non c’è consolazione, solo un gran mistero che rotola giù per le scale dove Karras trova (apparentemente) la morte. La conclusione del 2000 è invece più lunga e vicina alla volontà di Blatty. Lo sceneggiatore, che è stato molto in sintonia con Friedkin durante la realizzazione del film, non sembra aver trovato comunione nella chiusa. Sulla carta doveva esserci un dialogo abbastanza ironico e rassicurante tra Padre Dyer e l’Ispettore Kinderman che secondo le intenzioni dello scrittore avrebbe riconciliato il pubblico con Dio e rinnovato così la fede nel bene che vince sul male. Per fortuna Friedkin non lo ascolta e taglia via la conversazione tra i due personaggi, mollando il sipario come un macigno sulle spalle provate di Padre Dyer e le nostre spaurite coscienze di cristiani fuori allenamento. Ne avremo a quintali nel seguito del 1990 di chiacchiere spassose tra lui e Kinderman, del resto. A questo punto però viene un dubbio. Se il finale di Blatty è presente nella versione uscita nel 2000 e questo finale non l’ha mai voluto Friedkin, con quale faccia si può chiamare L’Esorcista 2000 il Director’s Cut?