Fino All’Inferno
2018
Fino All’Inferno è un film del 2018, diretto da Roberto D’Antona.
È inutile che stiamo qui a menarcela a vuoto. Gira e rigira, a conti fatti, tre rimangano le fondamentali e imprescindibili certezze della vita: la morte, le tasse e Roberto D’Antona. Alla prima si è costretti a soccombere per legge di Natura. Le seconde vanno pagate, punto e basta. Il terzo è quello che, invece, ci dà le soddisfazioni più grosse e succose. A dire il vero, già solo dopo aver dato una sbirciatina a quel piccolo pazzo funghetto filmico alquanto allucinogeno di The Wicked Gift (2017), le sicurezze in merito alle brillanti potenzialità di un filmaker abituato a ingozzarsi di cinema di genere come di Pavesini a colazione non erano tardate ad arrivare. Ma dinnanzi a qualcosa come a Fino All’Inferno l’amore, quello autentico, ha preso subito il posto della sorpresa, un amore totale e incondizionato per un pazzo uomo che, davanti e dietro alla macchina da presa, dichiara, fiero e consapevole, di fare solo ed esclusivamente del cinema di puro intrattenimento. E che intrattenimento! Cambiando bruscamente registro come preservativi la notte di Capodanno e complicandosi volutamente la vita con tanta carne narrativa al fuoco da imbandirci una tosta grigliata texana, Fino All’Inferno vomita in faccia allo spettatore la disgraziata epopea di Rusty (Roberto D’Antona), Anthony (Francesco Emulo) e Dario (Alessandro Carnevale Pellino), tre scapestrati delinquenti, reduci da una rapina finita parecchio male, con i cui proventi sperano di poter ripagare il debito pendente nei confronti dello spietato boss Vincent Costello (Massimo Comiato).
Nonostante parecchi morti ammazzati e un discreto bordello generale, il tutto sarebbe teoricamente a posto, sennonché il fortuito incontro, a bordo di un camper di recupero, con l’agguerrita Julia (Annamaria Lorusso) e il di lei taciturno figlioletto Nicholas (Danilo Uncino) inizia a complicare decisamente la situazione. Ben presto, infatti, l’improbabile gruppuscolo si trova braccato dagli scagnozzi del perfido e misterioso Dottor Edoardo Di Caprio (Mirko Giacchetti), deciso a mettere le mani sull’indifeso ragazzino, custode e prova vivente di un inconcepibile segreto scientifico tutt’altro che etico. Sgombriamo subito il campo da eventuali equivoci: Fino All’Inferno è un film della Madonna! Nel senso che solamente la Beata e sempre Vergine Maria, opportunamente reincarnatasi nelle membra, nella penna, e nella macchina da presa di uno come D’Antona, avrebbe potuto anche solo concepire un delirio del genere, capace di sollazzarsi allegramente tra l’iperviolenza pulp tarantiniana, le atmosfere techno-agè carpenteriane, il politicamente scorretto grand guignol romeriano e una dose rinforzata del binomio sesso&pallottole caro tanto al noir d’oltralpe quanto al polizi(ott)esco nostrano.
Gli sfacciatissimi e sincerissimi omaggi all’action hollywoodiano e hongkonghese anni ’80 e ’90 martellano incessantemente gli occhi, gli orecchi e il cuore a ciascuna inquadratura, laddove ogni adrenalinico stacco di montaggio, ogni accordo di sintetizzatore e ogni sberla di luce al neon non possono che risvegliare nella mente di ogni cinefilo che si rispetti pruriti e sensazioni ben note e profonde, rese ancora più acute dall’uso di nominativi (quasi tutti pomposamente yankee) che pescano a man bassa nelle glorie passate e presenti della Settima Arte. Emoglobina, ossa rotte e pruriginosa carne umana si alternano, come in balletto della morte di Tchaikovsky, a uno talmente nero e sboccato da far vibrare di gioia iridi e timpani, in una caciara di urli e strepiti in cui il sempreverde e abusatissimo Fuck! diviene qui, finalmente, autentica cifra semantica, al punto da far impallidire persino il turpiloquio dell’Al Pacino di Scarface. Si vede che D’Antona si diverte come un bimbo nella casetta di marzapane a cantarsela e a suonarsela come meglio gli piace, circondandosi di fedelissimi di vecchia data che conferiscono all’intera operazione una sana fragranza di pane fatto in casa. Fino All’Inferno è tutto questo e molto di più. Ma soprattutto è, orgogliosamente, un prodotto tutto italiano, di quelli che ormai non se ne fanno più e che, in verità, forse non se ne sono mai neanche veramente fatti, almeno non nella terra di Dante e Antonio Razzi. Insomma, giusto il tipo di cosettine laide e corrotte che chi bazzica allegramente dalle nostre parti ben conosce e sa apprezzare.