Hybris
2015
Hybris è un film del 2015, diretto da Giuseppe Maione.
Fa sempre piacere quando un indi italiano sbarca in sala: il passo successivo – e decisivo – è verificarne l’effettiva qualità. Hybris (2015) del giovane esordiente Giuseppe Maione supera l’esame con una sufficienza abbondante: in un mondo dove si incontrano lavori rasenti l’amatoriale, innanzitutto ne va riconosciuta l’efficacia e professionalità visiva, con un’immagine e fotografia cinematografica. Incuriosisce poi il titolo colto: la “hybris”, come avverte una didascalia all’inizio del film, è un termine greco indicante “insolenza, tracotanza” destinata ad essere punita dagli dei. Per comprenderne il legame con quanto vediamo, bisogna seguire tutto il film, che – nonostante una certa lentezza a tratti e una sceneggiatura (forse volutamente) con molti punti oscuri – appassiona e inquieta lo spettatore. La vicenda, nelle premesse iniziali, sa un po’ di già visto: quattro amici (tre ragazzi e una ragazza) si recano in una casa sperduta nel bosco per rispettare le volontà di un loro amico defunto. Giunti sul posto, iniziano ad essere preda di allucinazioni visive e sonore, porte e finestre scompaiono, mentre appare sempre più chiaro che i rapporti fra loro non sono molto sereni. Qualcosa di misterioso è accaduto nel loro passato, qualcosa legato anche allo sventurato Valerio, deceduto per cause a noi ignote: una forza occulta si scatena nel gruppo, portando a galla la metà oscura di ciascuno.
Numerosi i sottogeneri affrontati e le citazioni. I “ragazzi nella casa nel bosco” è un filone ormai abusato nel cinema horror, e Hybris sembra richiamare, più che Cabin fever, il modello raimiano di La casa – la chiave sopra la porta, la motosega, la steady-cam che corre nel bosco, persino la struttura della baita. Hybris è un film che va visto più che spiegato, è un film più d’atmosfera e di suggestione che non un’opera dove ogni elemento va al proprio posto. In certi momenti pare un thriller psicologico alla Carnage, in altri un thriller parapsicologico, in altri ancora un giallo con mistero da risolvere e infine un film “esorcistico”. Molta la carne al fuoco (forse troppa per 86 minuti), non tutto risulta chiaro, ma alla fin dei conti funziona bene così. La vicenda, iniziata con un flashforward su un ragazzo ferito, procede dapprima in modo lento, senza chiarire da subito i legami fra i personaggi: in particolare, scopriremo solo in seguito che Marco e Penelope sono fratello e sorella, protagonisti di un amplesso incestuoso, abbastanza castigato nella messa in scena ma non per questo meno morboso. Tutti hanno scheletri nell’armadio, che man mano saltano fuori in maniera più o meno esplicita: ogni cosa sembra ruotare attorno a Valerio, zimbello del gruppo fin da piccolo, e ai suoi disegni di argentiana memoria (così come l’orsacchiotto Bubu).
Voci che risuonano, continuo senso di claustrofobia, allucinazioni: Maione sembra voler riprendere le buone vecchie ghost-story, tenendosi lontano dai banali sobbalzi ad effetto dei moderni James Wan. Ad un certo punto, ci viene persino da sospettare che sia tutto un complotto da giallo lenziano, per poi imboccare, invece, una strada più marcatamente esoterica. La tecnica è sempre essenziale per fare un buon film, e il regista dimostra di avere talento da coltivare: notevole per esempio la steady-cam che ruota attorno a Penelope mentre è assalita dalle voci. Per gli amanti dello splatter, non mancano alcune scene di sangue e violenza, tra ferite sanguinolente e teste spaccate col martello.