Il permesso – 48 ore fuori
2017
Il permesso – 48 ore fuori è un film del 2017, diretto da Claudio Amendola
Quattro vite, quattro personaggi, quattro storie e quattro punti di vista differenti. D’altronde, secondo Claudio Amendola, regista di Il Permesso – 48 ore fuori, sua opera seconda dietro la macchina da presa, «quattro è il numero perfetto per raccontare storie al cinema», così come quattro erano i disperati che nell’esordio di La mossa del pinguino si arrabattavano per sbarcare uno scarno lunario, mettendosi in gioco letteralmente con tutto il corpo, spingendosi (e spingendolo) ai limiti. Nel Permesso, invece, il focus è spostato sul – difficile, tentato, mancato – reinserimento sociale di quattro detenuti che assaporano quarantotto ore di libertà: due di loro per prima cosa, nel goffo tentativo di riappropriarsi della loro vita, decidono di fare sesso. Perché oggi riappropriarsi della propria vita vuol dire riappropriarsi del(la dignità del) proprio corpo, prima di tutto: e forse, al centro del cinema di Claudio Amendola come regista c’è proprio il corpo. Un corpo fortemente materico, centro di gravità esistenziale e metaforico della vita, equilibrio del proprio stare al mondo, simbolo di riscatto e oggetto di redenzione: d’altronde, anche l’Amendola attore rimanda in qualche modo a concezioni fisiche, materiche, sostanziali.
Riappropriarsi del corpo. Se La mossa del pinguino aveva spiazzato un po’ tutti raccontando un’umanità brillocca declinata in commedia, con Il Permesso – 48 ore fuori il regista si riappropria in qualche modo del suo genere principale e forse a lui più congeniale, rileggendo e correggendo una sceneggiatura originale di De Cataldo, mettendo a frutto la sua esperienza sui set e soprattutto quella maturata come attore. D’altronde le sue prove migliori da attore sono le sue ultime, ovvero in Suburra e Noi & la Giulia, e qua conferma il suo status molto eastwoodiano: l’Amendola attore incanala un’emozione dolente e dolorosa per ogni sguardo, ed è oggi come il buon vino e come i “grandi vecchi” del cinema americano, sui quali il trascorrere del tempo ha segnato rughe come linee d’espressione (ed ecco che ritorna il corpo).
Ma quello che più piace, del film, è come l’ordito narrativo intrecci con equilibrio le quattro storie, dando il giusto respiro all’introspezione – lasciata alle capacità degli attori: ottimi Valentina Bellè e Giacomo Ferrara, fuori scala Amendola, pessimo Luca Argentero con il segmento peggiore di tutti – e lasciandosi il tempo per raccontare anche gli spazi, gli ambienti e i luoghi che, muti, sottolineano il ritmo e calibrano le emozioni (la galera, il lungomare, i Parioli). Certo, la regia a volte carica eccessivamente gesti, situazioni e disperazioni, rendendo teatrale un film che da camera non è, però riesce a lasciare il retrogusto di una commistione di generi che prende forma nel noir emotivo. L’attore supera quindi il regista, che però ha equilibrio e dirige di pancia: e anche se la musica è a tratti ridondante, Amendola dimostra di avere le idee chiare su una sua idea di cinema -non originale, ma di certo sincera, e che non può che fare bene ad un cinema italiano intasato da velleità non corrisposte.