Il Sangue di Cristo
2014
Il sangue di Cristo è un film del 20, diretto da Spike Lee
Spike Lee parla di re-interpretazione e non di remake. Che sarebbe un eufemismo per calco, mimesi, ricopiatura. Perché, all’apparenza esterna, tra Il sangue di Cristo e Ganja & Hess, il film di Bill Gunn del 1973 che ha funto da modello, c’è un rapporto strettissimo. Almeno come esposizione di cose che succedono nella storia. Abbiamo un raffinato archeologo e antropologo nero, il Dottor Hess Greene (Stephen Tyrone Williams) che ha scelto come modo dell’esistenza il “vivi appartato”. È un uomo che ama circondarsi di oggetti d’arte antichi, uno studioso ma anche un’esteta. Ed è il secondo termine del titolo di Gunn, Hess. Il primo elemento è Ganja, cioè il nome della moglie di un fresco assistente di Hess preda di manie sucide, che si è tolto la vita il giorno dopo essergli entrato in casa. Le cose non sono, però, così semplici. Quello che si è ammazzato aveva prima cercato di far fuori Hess, poi si era tolto la vita. E avevamo scoperto che Hess non può morire. E che, rinvenuto il cadavere fresco dell’ospite, ci si era avventato per leccare il sangue fuoriuscito. Hess è dunque un vampiro? No. Hess ha avuto in lotto da un antico pugnale Ashanti il duplice dono – la perfida bellezza di un bastone biforcuto, come lo avrebbe definito Richard Burton nel Tocco della Medusa – dell’immortalità che paga pegno, però, con il bisogno incoercibile, totale, di sangue: scorte mediche, approvvigionamenti dalla fonte umana diretta, tutto va bene. Ganja doveva raggiungere il marito. Arriva, non lo trova, lo cerca e finisce così per arrivare a Hess. Alea iacta est…
Che sottostanti scorrano idee politiche, allora, nel 1973, come ora, è ovvio. Un pugnale che arriva dal continente nero primigenio ed è latore di immortalità e al contempo di morte, come un legato di libertà che passa però, necessariamente, attraverso atti violenti: se non è Frantz Fanon, ci gira attorno, sempre lì, dalle parti di I dannati della Terra. Ma Il sangue di Cristo è esperienza assai più folgorante per i sensi che per la testa. Spike Lee filma in maniera assolutamente diretta, scabra e ruvida i fatti dell’esistenza di Stephen Tyrone Williams prima e poi del suo rapporto con Ganja, l’attrice Zaraah Abrahams, la quale accetta di condividere con colui che conserva il cadavere di suo marito in una ghiacciaia ma del quale si è innamorata, un destino ugualmente eterno e cruento. Niente si tace nelle due aggressioni di Hess a danno delle prostitute che lo devono dissetare, il gore è insistito, oltre che molto realistico. E lo stesso vale per le sequenze di sesso (anche un bel lesbo tra la Abrahams e Naté Bova), girate in modo da far nascere finanche il dubbio che i due attori lo stiano facendo sul serio. Eppure, il messaggio sensoriale che emerge dal film non ha niente di greve o di pesante e il verismo spinto finisce per generare sensazioni diametralmente opposte, come di un racconto rarefatto e sognante, che oltre a far venire in mente film che hanno danzato su questa stessa linea chiaroscurale del “vampirismo” (virgolettato) come dipendenza, richiama modelli europei ancora più aerei e simbolici, a cominciare da La vestale di Satana (1971) di Harry Kümel.
Spike Lee non ha rivelato fino all’ultimo che il suo film fosse un remake di Ganja & Hess. Non lo sapeva nessuno, fino alla prima. Vedendoli uno dopo l’altro, e rivedendoli perché una volta non basta, si deve concludere che Lee ha ragione quando dice che non ha fatto un remake, ma al contempo non ce l’ha. Che non è un giochetto di parole e di concetti facile per levarsi d’impiccio, ma risponde alla profonda convinzione che un film sia dentro l’altro ma lo scavalchi, se ne allontani. La cosa più buffa è che non è necessariamente Lee che scavalca Gunn, non è il dopo che scavalca il prima, ma potrebbe essere vero il contrario. Ganja & Hess è più lontano dalle cose del mondo di quanto non lo sia Il sangue di Cristo ma allo stesso tempo è un film che sembra avere un’urgenza che quello di Lee non ha; sembra contenere una necessità espressiva che in Da Sweet Blood of Jesus non si avverte. Forse, una possibile via d’uscita da queste aporie e contraddizioni, è che si tratta di due film che il destino o qualunque altra cosa ne faccia funzioni, ha reso indispensabili l’uno all’altro, in un rapporto maritale profondissimo che mima quello di Ganja e di Hess.