In a Lonely Place
2016
In a Lonely Place è un film del 2016, diretto da Davide Montecchi
Ogni film ha un tema. Che chi l’ha fatto ne sia consapevole, a volte capita e a volte no, poco importa. Ogni film è edificato su una pietra angolare che gli può dare senso e forza, se è essa stessa forte, o gli può togliere una cosa e l’altra se forte non è. La pietra angolare di In a Lonely Place di Davide Montecchi è la Verità e la ricerca ossessiva e ossessionata, ossessionante, della stessa. Il regista ne è consapevole, questa volta. Ed è un fondamento di basalto, forte, che nutre una forte storia conseguente. Dicono che la Verità sia nuda e quindi anche la struttura di questo racconto è semplice: un tizio che supponiamo fotografo di professione convoca una ragazza che deve fargli da modella in un albergo. Un albergo abbandonato, enorme, silenzioso, polveroso dove lui vive solo. La storia però va à rebours, per dirla con Huysmans. Cioè, incomincia che tutto quanto appena detto è già successo, insieme ad altro ancora, dal momento che noi troviamo lui che declama e delira nelle stanze vuote del mastodonte deserto e lei che, legata a una sedia, in un salone – sparso il pavimento di cose indecifrabili ma sinistre – implora aiuto e pietà che nessuno può evidentemente darle. Tantomeno l’uomo, che l’ha ridotta in questa situazione.
Conta il come, prima del cosa. E anche molto il dove, perché la desolazione di questa location di cui la mdp riesce a farci sentire la grandezza e l’abbandono, camere vuote e immote, dietro camere vuote e immote, in un mistero infinito e impenetrabile, è una cornice potente. Il come è il buon uso della lentezza, l’esplorazione meticolosa dello spazio, perché in fondo la Verità può alcune volte stare anche intorno alle cose oltre che dentro le cose stesse. È un modo di girare ipnotico, sinuoso e sinistro, perché è chiaro che i due, lui e lei, stanno danzando sul ciglio franoso di un abisso. Lui è un folle e lei è la vittima inerme nelle sue mani, chissà che le farà adesso – pensi –, quando cominciano ad apparire cose acuminate, aghi, punte, lame. È l’attesa, disattesa, di un torture-porn, di roba grossa, da far voltare la testa. Ma è ipnotismo, appunto, quindi attenzione: perché non tutto è oro ciò che luccica e il diavolo non è mai così brutto come lo si dipinge. E soprattutto – continuando con la saggezza popolare – la Verità è sempre rivoluzionaria. E come tutte le rivoluzioni o porta la palingenesi o porta la catastrofe.
In a Lonely Place è uno di quei film scrivendo dei quali è meglio dire una parola in meno che una in più. Perché alla storia scritta dal regista con Elisa Giardini ci si deve andare senza la scorta di alcun warning. Tranne uno: che qualunque cosa vi aspettiate, cadrete comunque dentro una grande botola. Insistiamo invece sul come e sul chi. I tempi registici di Montecchi vanno in controtendenza, rallentando dove tutti accelererebbero e ottenendo così di tirare al massimo l’elastico della tensione. Come già si è detto, l‘escamotage funziona. Il chi sono due interpreti ben adeguati a questo gioco al massacro dove c’entrano anche la gnosi e le dottrine sapienziali, perché qui non si scherza affatto: Luigi Busignani e Lucrezia Frenquellucci, che spingono con convinzione le loro performances fin dove il film richiede che facciano. E il film, in questo, è molto esigente. Girato in inglese (la Frenquellucci è doppiata da Barbara Sirotti) per la Meclimone, In a Lonely Place meriterebbe di essere porto all’attenzione non solo degli appassionati di horror (onore al merito del ToHorror, comunque, che l’ha messo nel suo concorso quest’anno), perché mi pare che nel genere, un film del genere, ci stai come nel letto di Procuste. Di Montecchi sentiremo riparlare.