Metalhead
2013
Metalhead è un film del 2013, diretto da Ragnar Bragason
Difficile analizzare con equilibrio Metalhead, se si è metallari. E se non lo si è, le difficoltà probabilmente raddoppiano. Perché alla base della “metallitudine” contratta dalla protagonista in giovanissima età, non c’è un innato disagio sociale ma ha la causa in una disgrazia. Il fratello, Baldur, lui sì metalhead di natura, finisce per essere scalpato dalla mietitrebbia mentre lavora il campo intorno alla fattoria di famiglia. Muore poco dopo e la sua splendida chioma rimane avvoltolata negli ingranaggi del trattore. La sua chitarra, i suoi dischi, i poster e i sogni di sfondare con la musica finiscono a impolverare nella cameretta. La sorella raccoglie il testimone di una ribellione che punta il mirino contro un Dio che si dice buono e sapiente ma che, agli occhi della bimba, ha portato via un’anima innocente e ridotto una famiglia all’apatia. E tutto questo magari per far pagare al povero ragazzo le sue simpatie per la musica del diavolo? Se c’è un Dio che tutto vede, tutto decide e tutto manovra, lo scalpo è simbolico e la morte un omicidio che è un monito per gli altri. I capelli lunghi, emblema di rivolta metallara sono requisiti dalle maglie della trebbia e il resto è da consegnarsi al cimitero con una bella messa.
Hera, ragazza islandese degli anni 80, cresce odiando la comunità di devoti cristiani che la circonda, ubriacandosi, suonando e ascoltando metal dalla sera alla mattina e facendo un sacco di cose stupide nel tentativo di sublimare il dolore che cresce con lei anziché estinguersi. E così finisce per apprendere dalla TV di una rivoluzione vera che dalla Norvegia si propaga in tutto il mondo: l’avvento del black metal che brucia le chiese, che urla frasi incomprensibili ma dal significato profondamente nichilista e blasfemo. Lei sarebbe subito pronta ad arruolarsi, girando per casa con la faccia pittata e incidendo canzoni sempre più estreme nel suo mangianastri. Dopo una delusione amorosa (lo smacco subito con il giovane e avvenente prete del paese) eccola che brucia la Chiesa della comunità e poi fugge in una catapecchia sui monti, come una Heidi col fucile, pronta a far fuori qualsiasi capretta o nonno in avvicinamento.
Nessuno va a cercarla. E lei torna in lacrime perché sono finite le pile del suo walkman. Metalhead in fondo ha uno sguardo benevolo e ironico nei confronti delle cantonate che la protagonista prende e alla fine non concede alcun alibi al suo odio fine a se stesso. I vicini ricostruiscono tutti insieme la Chiesa che lei ha distrutto e la perdonano. Non c’è nessun rogo, niente “brucia, strega, brucia”. La creatività musicale permette poi a Hera di esprimere in fondo il messaggio che magliette con i teschi, musica fragorosa e pose ostili non ce la fanno a dire. Il finale in cui lei si esibisce con la sua band, cantando in clean dei versi metal da brivido su morte e desolazione, farà venire le pustole allo scroto di molti metallari oltranzisti, ma è l’unico modo realistico di mettere un ponte tra il dolore di Hera e il cuore del mondo che la circonda e che tutto sommato le vuol bene e non la abbandona mai a se stessa.