Sicario
2015
Sicario è un film del 2015, diretto da Denis Villeneuve.
Denis Villeneuve una volta parlava francese: non quello della Sorbona, ma quel buffo cantilenato sporco che si parla in Québec. Forse lo parla ancora adesso, immagino, almeno in famiglia. Il suo cinema però, più che quello di altri suoi connazionali, ha sempre flirtato con il linguaggio cinematografico d’oltre frontiera. Il passaggio a Hollywood, con gli ultimi tre film sembra l’esito naturale di un percorso cominciato nella seconda metà degli anni ’90 con Un 32 août sur la terre e Maelström. Villeneuve è un regista che, indagando i meccanismi della paura e della vendetta, non ha paura a mostrare la morte; sembra avere un dono per la misura nel corpo a corpo con la morte, col sangue, con la decomposizione, coi tessuti offesi, lacerati, aperti, pur mantenendo un senso di obiettività anti-splatter. Sicario: prima sequenza, decine di cadaveri, vittime dei narcos, in putrefazione, là dove non te li aspetti, senza preavviso. Ed è solo un prologo.
È la prima azione, esemplare, degli agenti speciali dell’FBI Kate (Emily Blunt) e Reggie (Daniel Kaluuya), che subito dopo vengono convocati per un confronto coi loro superiori. Il loro timore è di non aver seguito correttamente il protocollo, per Kate una vera e propria ossessione: in realtà si sta costituendo una task-force per combattere un cartello del narcotraffico operativo sull’asse Colombia/Messico/USA, anche se le vere priorità del team, coordinato dall’agente CIA Matt (Josh Brolin) e ingombrato dall’introverso e misterioso procuratore di origine colombiana Alejandro (Benicio Del Toro), si dipaneranno, senza mai chiarirsi del tutto, man mano che la narrazione procede. E procede con il passo quasi solenne, 4WD, degli automezzi blindati: quando Roger Deakins (già d.o.p. di Prisoners) allarga l’inquadratura e segue, con una misura e una perspicuità fotografica che si sono già guadagnate un posto nelle antologie, il traffico in entrata e in uscita al confine tra El Paso e Ciudad Juarez, diventa chiaro che è quello, è la frontiera, il tessuto connettivo, morto, o meglio morente, livido, che a Villeneuve interessa mostrare in questa occasione, con la colonna sonora umbratile e leggermente minacciosa di Jóhann Jóhannsson , a tenere le pulsazioni. In questo “tessuto” si muove un sistema incrociato di polizie dove l’integrità di Kate viene strumentalizzata per dare i crismi della legalità a un’operazione tutt’altro che pulita.
Emily Blunt, volto struccato e occhioni sgranati per tutto Sicario, è perfetta nel ruolo dell’agente orgogliosa, metodica eppure ingenua, vaso di coccio tra i vasi di ferro (non si fatica a rivedere in qualche modo la Clarice Sterling di Silence of the Lambs che era, a ben vedere, anche il modello a monte del personaggio di Jake Gyllenhaal in Prisoners). Lo smarrimento del personaggio di Kate prosegue di pari passo con quello dello spettatore, ne incarna lo sguardo (e anche qui il lavoro di Deakins con i cambi di focale è impeccabile) quasi a ricordare che lo stesso Villeneuve si sta, per via di regia, orientando in un testo a cui non ha messo mano (la sceneggiatura è il primo lavoro importante di Taylor Sheridan, già nel cast di Sons of Anarchy), brancolando talvolta nei cunicoli bui che passano sotto frontiera. Ma non dite che è una marchetta: basta la sequenza del confronto tra Alejandro e il suo nemico n°1, quell’uso rigoroso del fuoricampo, a ricordare che il canadese sa il fatto suo; il qual canadese, se non ce ne fossimo accorti, si è aggiudicato la regia del nuovo Blade Runner. Se sia vera gloria lo staremo a vedere. Come e quando, quella è un’altra storia.