The Hateful Eight
2015
The Hateful Eight è un film del 2015, diretto da Quentin Tarantino.
Fiocchi di neve baluginano senza soluzione di continuità in ogni inquadratura, come nella casa gotica di Crimson Peak, una palla di vetro con dentro la neve, una Rosebud archetipica e temporalmente opportuna: siamo a Natale, come in Revenant, dove Iñárritu ha chiuso la tenzone tra il 25 dicembre e Capodanno. È il western corpuscolare, più che crepuscolare, di Quentin Tarantino. Se Iñárritu entra nei corpi, Tarantino se ne allontana sempre di più. Gli attori perdono progressivamente peso, non contano quasi più nulla, al punto che la presenza di Samuel L. Jackson e Michael Madsen diventa troppo ingombrante, a rischio di un effetto-Favino difficile da digerire. Sorprendentemente affine a Lars Von Trier, ma un Von Trier senza necessità di psicanalisi: quello che resta nel cinema di Tarantino sono allora i personaggi, privi di qualsiasi legame con gli attori chiamati a interpretarli. Ed è quindi possibile guardare Tim Roth che gioca a fare Christoph Waltz, e scommettiamo che i criticoni storceranno il naso davanti a questa e altre scelte, e saranno gli stessi criticoni che lo storcevano davanti alla inverosimile scelta di Von Trier, per il quale Joe e Jerome avevano entrambi, in Nymphomaniac, due interpreti fisicamente diversissimi.
Quasi tre ore di parole, in un’impalcatura polanskiana nella quale spargimenti di sangue e mutilazioni non mancano, anzi. Esplodono, deflagrano, tingono di rosso la neve, schizzano sugli spettatori in maniera ancora più disturbante ed esaltante che in passato, grazie anche agli effetti speciali di Greg Walking Dead Nicotero, scelta non casuale: i corpi non sono più fondamentali, non muoiono perché già morti, anche se non tornano, ché non sono Revenants. «All the ones you tell your troubles to, they don’t really care for you».
Non manca l’ironia, al solito tagliente e sprezzante di ogni political correctness, anche se ridere al cospetto dell’accolita degli otto rancorosi è praticamente impossibile. Un abisso separa in tal senso The Hateful Eight da Django Unchained: qui le derive avant-pop e caciarone, le secchiate di canzoni splendide sono quasi del tutto assenti, e nelle sale non si celebrerà alcun rito collettivo. Sono le parole a strapazzare i sensi del pubblico, a tempestarlo di discorsi nudi e crudi sulla differenza tra giustizia e giustizia di frontiera («è il boia a distinguere la giustizia, perché ammazza senza coinvolgimento emotivo: oggi ne impicco uno a Red Rock, domani un altro a Laramie. It’s my job»), sul razzismo inciso a fuoco nel DNA statunitense («quando i negri hanno paura, i bianchi sono al sicuro», ma il pamphlet tarantiniano non risparmia nessuno: l’accogliente e sempliciotta locandiera nera ha appeso un cartello fuori dalla porta: «No dogs or mexicans allowed»), sulla guerra civile appena conclusa che ha scosso le vite di tutti i presenti, pronti a commuoversi per una lettera di Lincoln, e ancora più pronti ad accompagnare uomini e donne alla forca senza battere ciglio. Sono o dicono di essere cacciatori di taglie, uno sceriffo, un boia, un vecchio generale.
È una donna che deve essere impiccata, l’unica che se ne sbatte di lettere e istituzioni, e che riceve un discreto numero di cazzotti in faccia a causa della sua bocca irriverente. È Iñárritu il conservatore al confronto: nel suo film la donna è solo un corpo rapito e abusato, anche se capace di provocare agguati e massacri. Ed è Tarantino a risultare sperimentale, avanguardistico e radicale come mai prima; anche con Daisy Domergue, perché piazzare una donna (Jennifer Jason Leigh, ma insistiamo: avrebbe potuto essere un’attrice qualsiasi, anche sconosciuta, e non perdere un’oncia della sua importanza) in quel ruolo e in quel contesto è un atto rivoluzionario e dirompente. «And you’re asking for someone to show they care. Someone who’s really there. Someone who understands».