Videodrome
1982
Videodrome: storia sugli effetti imprevedibili che le immagini sessualmente violente hanno su un proprietario di una stazione televisiva specializzata in sesso e violenza.
Max Renn, direttore di una scalcinata tv privata che propone programmi di carattere violento e pornografico, capta per caso il segnale di un programma pirata a base di torture ed omicidi, VIDEODROME. Ci vorrò poco per capire che Max stesso è caduto in una pericolosa trappola organizzata da una potente lobby al fine di lobotomizzare gli spettatori e sottometterli psicologicamente formando un tumore irreversibile nel loro cervello.
Videodrome si colloca quasi come un’opera di evoluzione e collante tra la prima parte della filmografia cronenberghiana, quella dei ’70, quella forse più feroce e ruspante, e la futura contaminazione tra le derive splatter al servizio di speculazioni filosofiche sull’uomo e sul suo rapporto-connessione con la tecnologia, con il suo lato oscuro, con le sue perversioni idiosincratiche. Quello che maggiormente affascina non solo in Videodrome ma, in fondo, in tutta l’opera omnia e nella filosofia che la sottenda di David Cronenberg è il riuscire non solo a gestire in maniera magistrale i due binari principali che fungono da ossatura alle sue opere (un versante che possiamo chiamare “di genere” e un altro “filosofico-sociale”) ma la capacità di immergere le sue storie, i suoi incubi cyber-splatter-punk in un’ atmosfera, in un ambiente che catturano l’attenzione dello spettatore e lo immergono in un’apnea angosciante grazie a piccoli elementi sparsi qua e là magistralmente orchestrati con una sorta di procedimento vedo-non vedo di carattere narrativo.
Elementi che rendono vivido il marciume morale, esistenziale e materiale del granguignolesco teatrino quale è il mondo- palcoscenico nel quale si dibattono i suoi masochistici attori. Facciamo un esempio: quale altra invenzione può avvicinare alla nostra epidermide, valicando lo schermo esattamente come accade nel film in questione, se non la semplice macchia untuosa che il personaggio impersonato da James Woods imprime su di una fotografia all’inizio della pellicola? Un segno di sporcizia, di degrado tangibile e scivoloso, laidamente connesso alle funzione vitali (il cibo, in questo caso), indice di una vita e di una società concentrata al soddisfacimento più basso e corporeo, alla crapula che ha origine dal corpo, in esso si sviluppa e in esso si deforma e muore; una società che Cronenberg riesce a ricreare con un lampo assai efficace già dalle prime inquadrature. Da lì in poi, oltre ad altri squarci narrativo-visivi di notevole e brutale efficacia, ci si immergerà in un’ atmosfera che ammanta come un mantello di color pece lospettatore, senza lasciargli scampo, ma anzi arrivando ad imbrattarlo (solo?) metaforicamente con una sorta di evoluzione di quella macchia iniziale.
Il nostro corpo e la nostra mente saranno infatti programmati per essere lordati da ogni tipo di cervella e frattaglia, da una nuova carne in cerca di sicura gloria. In fondo, è come se quella macchia nell’incipit fosse un messaggio subliminale da parte dell’autore al pari delle programmazioni sperimentali avviate dalla lobby fautrice del progetto Videodrome. Ci instilla il tumore del disgusto, un sano disgusto in questo caso, per attrarci sempre di più, e forse sadomasochisticamente, verso il futuro putridume che esploderà dalla pellicola verso i nostri schermi (proprio al pari di quanto, ancora una volta, ci viene narrato-visualizzato-”imposto” nel film). Videodrome, quindi, appare quasi una metafora, se non del cinema in sé (ma lo è, intrinsecamente..), quantomeno della carriera cronenberghiana: la bocca che richiama Max Renn è quasi l’incarnazione da una parte di un cinema che cerca di tendersi verso l’infinito e oltre di sé, alla ricerca di filosofici e sociologici terreni vergini da analizzare, e dall’altro del desiderio di coinvolgere dentro di sé lo spettatore, con l’intento palese di risucchiarlo in un vortice emozionale che non può non scuoterlo, turbarlo, smembrarlo.