The Day the Clown Cried
Il film di Jerry Lewis che non vedremo mai. Forse...
Al prossimo Festival di Venezia è annunciato un documentario di Michael Lurie ed Eric Friedler, From Darkness to Light, che ripercorre la storia di uno dei grandi film perduti, The Day the Clown Cried, di e con Jerry Lewis…
Tre anni prima che Alberto Cavallone andasse in Cappadocia a girare quello che è il signore dei suoi film scomparsi – e per noi, il signore dei film scomparsi in assoluto –, Maldoror, Jerry Lewis fece The Day the Clown Cried: Il giorno in cui il clown pianse. Era il 1972. Il titolo fa venire in mente, a noi e forse a nessun altro, quello internazionale, inglese, che avrebbe avuto il lacrima-movie di Filippo Ottoni che in Italia conosciamo come Questo sì che è amore: The Day the Santa Klaus Cried. Chissà se qualcuno si era ricordato di Jerry Lewis o se fu un caso – il film di Ottoni, prodotto da Ovidio Assonitis, era del 1977. The Day the Clown Cried non lo ha mai visto nessuno. O quasi. Qua e là, sono riaffiorati frammentini, pezzi di un backstage, foto di sena: le solite minuzie residuali del post-catastrofe nella storia dei film perduti. Il montaggio finale, Jerry Lewis lo conservava in una vhs inchiavardata in cassaforte. Quanto al negativo, dove sia nessun lo sa. Una copia, si ignora se su nastro o in pellicola, è stata donata alla Biblioteca del Congresso nel 2015, con l’impegno, tuttavia, a non rendere pubblico il film fino al 2025. Volontà di Lewis, che, probabilmente e razionalmente, contava di non campare fino ad allora e nel frattempo tenne il cimelio nascosto come il proverbiale scheletro nell’armadio. Al Picchiatello, classe 1926, quattro by-pass, un cancro alla prostata, diabete e fibrosi polmonare, se lo incontravate potevate chiedere di tutto, ma guai a nominargli Il giorno in cui il clown pianse.
«Sono imbarazzato da quel film. Mi vergogno di quel lavoro, e fui grato all’epoca di avere avuto il potere di non farlo uscire, e non lascerò mai che nessuno lo veda. Era tremendo, tremendo, tremendo». Lewis dixit. Eppure, il film gli era costato tantissimo, in termini di preparazione, attenzione, applicazione. Original Screenplay by Joan O’Brian and Charles Denton. Based on a Story Idea by Joan O’Brian. Additional Material by Jerry Lewis, si legge sull’intestazione del copione – reperibile in formato pdf on line. Joan O’Brian non è l’attrice, ma un’omonima scrittrice e agente pubblicitario per grossi nomi, tra i quali Ronald Reagan ed Elvis Presley. Il cosceneggiatore, Denton, non aveva niente a che vedere con il produttore inglese, ma era un critico americano che insieme alla O’Brian aveva sviluppato questo script già da alcuni anni.
Di che si tratta? È la storia di un clown derelitto, di nome Karl Schmidt, un pagliaccio che lavora in un circo in Francia. Siamo durante la Seconda grande Guerra. Un giorno, Karl, ubriaco, dileggia il Führer in un locale pubblico. La Gestapo lo arresta e lo spedisce in un campo di concentramento. Qui consuma i suoi giorni, per quattro lunghi anni, senza mai acconsentire alle richieste dei compagni di esibirsi nella sua arte. Finché un giorno, scazzottandosi con i compagni, finisce nel fango: un gruppo di bambini ebrei lo sta guardando e ride. Karl ha trovato la chiave per sopravvivere in quell’inferno: portare il sorriso sulle labbra dei bimbi destinati al macello nelle camere a gas. I tedeschi gli ufficializzano persino quel ruolo, promettendogli la salvezza. Accompagnare le vittime innocenti al macello tenendoli buoni e allegri. Il finale era straziante, quando Karl decideva di entrare insieme ai piccoli nella stanze che sarebero state saturate del Zyklon-B.
La sceneggiatura girò molto, all’epoca, fu molto letta: tutti sembrava volessero fare questo film, ma alla fine ne venivano scoraggiati, dal tema, dalla cupezza. Un produttore ungherese, Nathan Wachsberger, alla fine si era accaparrato i diritti. Conobbe Jerry Lewis a Parigi e gli offrì il film: protagonista e regista. Carta bianca assoluta. Jerry nicchiò, aveva paura di tornare a tentare la chiave drammatica: già lo avevano bastonato, i critici, quando aveva fatto il remake di The Jazz Singer per l’NBC, nel 1959. Ma alla fine disse sì. Rimise mano alla sceneggiatura, riscrisse su di sé il personaggio, pensando a Chaplin, e gli cambiò nome, da Karl Schmidt a Helmut Doork. Viaggiò per vari mesi tra Germania e Polonia visitando i resti dei lager. E nell’aprile del 1971, si diede il via alle riprese. Prima a Parigi poi in Svezia, a Stoccolma.
Un milione e mezzo di dollari di budget. Ma i guai cominciarono subito. Il produttore che sparisce per alcune settimane con l’equipaggiamento tecnico. Poi, salta fuori che i diritti sullo script sono scaduti prima dell’inizio delle riprese. In corso d’opera, Lewis decide quindi di rischiare del suo, immette denari e riesce a portare a termine la lavorazione, in cento giorni, dormendo tre ore per notte. Il racconto di come girò la scena madre finale, sottoposto a quale stanchezza e tensione, è allucinante: «Ero come paralizzato, non potevo muovermi. Stavo lì con tutti questi bambini attorno, che si stringevano alle mie braccia e alle mie gambe. Questo mi ridiede la forza. Cominciai a muovermi, a camminare dentro la camera a gas, insieme a loro, mentre la porta si chiudeva alle nostre spalle».
All’inizio del 1973, Lewis riuscì faticosamente a predisporre un montaggio provvisorio del film, con l’idea di presentarlo al Festival di Cannes di quell’anno. Ma qui la faccenda si arenò, per i problemi finanziari sorti e per la questione della proprietà dei diritti della sceneggiatura, che era tornata nelle mani di Joan O’Brian e Charles Denton. I quali furono tra i pochissimi ad avere visto alcune scene del film, e le detestarono, per via delle libertà che Lewis si era concesso nel tratteggiare il personaggio del protagonista. Altri che poterono dare un’occhiata a frammenti del montato (ad esempio, Harriet Anderson, che interpretava la moglie di Lewis, Lynn Hirschberg, una giornalista di Rolling Stone, il regista televisivo Joshua White e il suo amico, l’attore Harry Shearer) parlarono di un film totalmente scentrato e sbagliato, dove il pathos e la comicità erano mescolati senza misura, con un risultato complessivo addirittura “terrificante”. Lewis stesso, col tempo, giunse a queste identiche posizioni di totale odio rispetto a The Day the Clown Cried, infliggendogli una sorta di damnatio memoriae destinata a durare finché egli avrebbe avuto vita.