Recovery
2016
Recovery è un film del 2016, diretto da Darren Wheat
Raccogliendo e incollando insieme una nutrita serie di “cliché” dello slasher e del moderno psycho-thriller, Darren Wheat (in procinto di concludere il suo successivo lavoro: Slumber, 2016) confeziona un film funzionale ma privo di particolare originalità, con la tiepida eccezione di un colpo di scena, non del tutto imprevedibile, riguardante uno dei personaggi principali, il cui rischio maggiore è quello di generare indifferenza. Recovery prende avvio con la fuga di Jessie (la deliziosa Kirby Bliss Blanton, The Green Inferno) da una festa organizzata dal suo ex fidanzato – dopo averlo scoperto in atteggiamenti intimi con un’altra – accompagnata da Kim, una ragazza appena conosciuta. Raccolti il fratello Miles e un suo spasimante, Logan, Jessie, pilotata da Kim, raggiunge un locale notturno dove si sfoga con alcol, droga e flirt del dispiacere – in realtà nemmeno troppo evidente – provocatole dal tradimento del compagno. Quando Kim scompare con il suo nuovo cellulare, Jessie e i due ragazzi pensano bene di andarlo a recuperare dopo averlo localizzato all’interno in una vecchia casa fatiscente e dall’aspetto tutt’altro che raccomandabile, con il prevedibile risultato di trovarsi intrappolati alla mercé di una coppia di psicopatici (padre e figlio), dotati di un senso assai distorto della famiglia.
C’è l’immancabile party accompagnato da comportamenti di dubbia moralità dei giovanissimi partecipanti; c’è la classica maschera del killer – quasi un “trademark” obbligatorio oramai – ci sono i video delle vittime imprigionate nel laido scantinato; ci sono le banalità d’azione – possibile che i protagonisti debbano sempre dividersi? – codificate in oltre 25 anni di un genere che fatica a rinnovare i suoi topoi, rimanendone il più delle volte imbrigliato; la fiera del già-visto. Non che Wheat sia un modesto artigiano, anzi, crea più di una scena efficace (come il prologo o i momenti di confronto tra vittime e persecutori), ma la sceneggiatura di Kyle Arrington (Dead Dad, 2012 di Ken J. Adachi) s’impantana troppo spesso lungo percorsi già massicciamente frequentati, perdendo identità e interesse; e, anche se ha dalla sua la presenza di un notevole personaggio come quello di Penny/“Mom” – che emerge per le sue anomali caratteristiche, quanto per la maiuscola prova di Julie Millet (The Remains, 2016 di Thomas Della Bella) che l’interpreta – trova il modo di creare dei tipi davvero spiacevoli in quelli che dovrebbero essere ruoli simpatetici attraverso i quali creare un legame col pubblico.
Alla fine, malgrado la bella cornice fornita dalla fotografia di Eric Bader (attivo in svariati documentari e lavori televisivi per la Disney), l’accurato design di Clayton Beisner e l’atmosferica partitura di Giona Ostinelli, Recovery scivola placido, con solo qualche sussulto rivitalizzante fornito da una battuta azzeccata, dalla presenza scenica di Michael Filipowich (notevole “villain” che già aveva portato in scena il “serial-killer” Rader nel televisivo The Hunt for the BTK Killer, 2005 di Stephen Kay) e dalle già segnalate sequenze riuscite. Detto della Millet e di Filipowich, il cast propone la consueta professionalità della recitazione a stelle e strisce, spesso salvagente di prodotti dai risultati complessivi modesti come questo, ma è doveroso menzionare almeno la prova di Alex Shaffer (giovane attore dalla filmografia ancora scarna in cui trova posto il thriller rurale Runoff, 2014 di Kimberly Levin) che riesce davvero a rendere insopportabile – quanto volontariamente non è possibile dirlo – il più odioso tra i personaggi della storia dello “slasher” a portare a casa la pelle.