Sotto il segno di Artaud
Capolavoro e film “assoluto”, l’ultimo parto di rob zombie. Lords of Salem, rinuncia all’imperio della logica e porta in scena un allucinato incantesimo
Artaudiano, aggettivo ricavato dal nome di Antonine Artaud, scrittore e regista francese nato a Marsiglia il 4 settembre del 1896 e morto il 4 marzo del 1948 a Ivy Sur Seine. A cosa l’aggettivo faccia esattamente riferimento, nessuno sarebbe in grado di esprimerlo in termini chiari e precisi. Leggere qualunque passo di un qualunque esegeta di Artaud, per rendersi conto che le spiegazioni non spiegano nulla e ricamano sul nulla. Più che altro, è un termine che richiama delle sensazioni, che possiede una rarefatta ridondanza aurale. Artaud teorizzava il “teatro della crudeltà”, nel senso della rappresentazione di uno spettacolo che utilizzasse ogni risorsa del corpo per ottenere l’adesione emotiva del pubblico. Un teatro totale, che avviluppa e fagocita.
Un atto ancestrale, magico, primordiale, basato sui segni e non sulle parole, eccetera eccetera… Ci si potrebbe girare attorno per ore, continuando a non riuscire a trarne qualcosa di logico e, soprattutto, di spiegabile. Artaud si bruciò il cervello con le sostanze stupefacenti, venne internato subendo una cinquantina di elettroshock e rese l’anima a Dio tenendo in mano una scarpa. Questo era l’uomo. Artaudiano in quanto aggettivo, dunque, fosco, indefinito, ricco di una stimmung che trae forza proprio dalla sua vaghezza e dal fatto che ciascuno lo intende, forse, per ciò che non è, arrivò come un sigillo-cadeau dei critici francesi a Lucio Fulci e al suo cinema. Fulci lo fece proprio e – sicuramente senza avere mai letto nemmeno un rigo di Artaud, poiché nessuno dotato di senno può pensare di leggere Artaud e tantomeno di capirlo – cominciò a usarne come un vero proprio mantra. E così lungo tutta la linea di coloro che ci hanno poi spiegato il Fulci-pensiero.
Artaudiano, per Fulci, era come dire “assoluto”, cioè absolutus, sciolto e assolto dal peccato delle normali convenzioni narrative e dalla consecutio logica degli eventi. Era la coordinazione, il racconto fatto di semplici giustapposizioni. Niente perché o poiché o dal momento che. Solo asindeti. Emily entra in casa, virgola, in salotto c’è un morto vivente che la sta aspettando, virgola, il morto vivente la attacca, virgola, il cane lupo della ragazza scaccia il mostro, virgola, l’animale azzanna alla gola la ragazza e la uccide. Punto. Questo è quanto, e più non dimandare. Lords of the Salem di Rob Zombie è un film artaudiano, qualunque cosa esso significhi – ma adesso un po’ l’abbiamo capito, cosa significa. Accumula scene, eventi, immagini alle quali non si riesce a star dietro come logica anche minima – il canovaccetto è che Sheri Moon, dj a Salem, è la discendente del feroce persecutore di una congrega di streghe e su di lei ridonda dopo secoli la maledizione delle malefiche straziate sul rogo. Ma lei si fa di crack, quindi: sogno o realtà?– che sommergono e irretiscono nel loro prodursi individuale, fregandosene di quello che viene prima e infischiandosene di quel che sarà poi. È un film che passa alla storia per la potenza astratta che contiene, per il puro piacere dell’illustrazione senza logica, come in fondo è stato per tutti i grandi film di Fulci – che sono quelli dei primi anni Ottanta, va da sé.
Federico Zampaglione ha detto che bisognerebbe guardarlo, questo Lords of the Salem, come un quadro astrattista. Ci ha colto. Non confondiamo, però, l’artaudianità con l’anarchia e la schizofrenia banali, di coloro ai quali i film escono così non per scelta ma perché non sarebbero stati capaci di farli in maniera diversa. C’è del metodo nel sistema di Rob Zombie e del rigore: rigore di regia, come in Fulci. Il cinema che coinvolge rinunciando alla dittatura del racconto e della trama è cinema della crudeltà nella misura in cui usa tutte le altre arti a sua disposizione per trascinarti dentro il film. Ma anche questo articolo è artaudiano e non sta dicendo nulla di tradizionale del film, perché non c’è nulla di tradizionale da dire. So però che quando Sheri Moon in una scena torna a casa di notte dalla radio dove lavora ed entrando in cucina per fare qualcosa, non si accorge che in un angolo, su un credenzino, c’è il cadavere combusto e animato di una strega che la guarda, la cosa genera – banalmente – una paura fottuta e lo zoom e il flash mentali vanno immediatamente su situazioni tipiche in Fulci, di Paura nella città dei morti viventi con i cadaveri-fantasmi che di notte compaiono e scompaiono nelle case di Dunwich, del quale la Salem di questo film pare la replica su carta copiativa. Gomarasca se ne accorge e domanda a Rob Zombie se conosce Fulci, ottendendone l’ovvia risposta che lo conosce bene e lo apprezza.
Altra cosa che so è che la montata onirica finale, quando la porta malefica (letterale: è una porta) sull’altra dimensione si apre nel palazzo dove abita la Moon e ne erompono insieme ai sorci, esseri putridi, mummie senza volto, nani e blasfemia piuttosto spinta (genere: zombi di vescovi che si masturbano), passa dal segno di Fulci a quello di Jodorowsky e il salmo finisce nella gloria totalmente surreale di sequenze che potrebbero essere state rubate a Santa Sangre. È il caso di dire, senza nessuna prudenza, che siamo di fronte al dissotterramento di grandi cadaveri ai quali Rob Zombie insuffla vita nuova. Uno su duecento lo può capire. Agli altri, i non sequitur e la lexis eiromene, lo stile paratattico, del film risulteranno incomprensibili e si rifugeranno a parlare di rock satanico, immaginario metallaro e troiate del genere. Ah, non date retta a chi scrive che la Moon (alias Sheri Lyn Skurkis: un bel nome vero e uno pseudonimo da accatto) fa pena: è una, se non la chiave di volta di questo cinema artaudiano di Rob Zombie. Così ho detto.