Profondo rosso: la genesi

«Ho fatto due anni di grandi riflessioni sulla macchina da presa, sulle riprese e anche sul thrilling»
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«Ho fatto due anni di grandi riflessioni sulla macchina da presa, sulle riprese e anche sul thrilling». Con tal frase lapidaria, Argento giustificava il suo rientro nell’alveo del giallo, dopo la fallimentare parentesi di Le cinque giornate. «Era un periodo di grande fermento, euforia e cambiamento. La mia storia con Marilù [Tolo, ndr] era finita; vivevo per la prima volta da tanto tempo senza una donna al mio fianco che non fosse mia figlia Fiore. Per me, che sono fondamentalmente un solitario e che soffro persino a dormire con qualcuno accanto, questa improvvisa libertà diede un sospiro di sollievo. Avevo voglia di rimettermi al lavoro ed ero pieno di energia». La nascita di Profondo rosso, a dire del regista, affonda le sue radici nella fase terminale delle riprese di Le cinque giornate (secondo una modalità che tenderà a ripetersi nella sua carriera: si pensi a Inferno, il cui progetto già sarebbe maturato quando ancora non era terminato Suspiria: e che sia vero o falso, non ha alcun valore, perché nel momento stesso in cui Argento formulava un’affermazione, essa era da assumere come l’unica possibile e accettabile). Più che una storia, Argento aveva sviluppato un’idea, che era stata scartata dalla stesura definitiva del copione di Quattro mosche di velluto grigio: una donna dotata di poteri extrasensoriali capta, nel corso di una conferenza, la presenza tra il pubblico della mente perversa di un assassino. Nei due mesi successivi al completamento di Le cinque giornate, durante una vacanza, Argento si dedica al soggetto, febbrilmente ma senza giungere a un punto fermo soddisfacente. Tant’è che ritiene di dover chiedere man forte a uno sceneggiatore di vaglia come Bernardino Zapponi: «Scelsi lui perché ammiravo moltissimo il suo lavoro per Federico Fellini e gli affidai il trattamento del film, ma il risultato finale non mi soddisfaceva».

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La gestazione di Profondo rosso si protrasse ancora a lungo, tra discussioni con Zapponi e riscritture del plot. Quanto, del risultato finale, appartenga a ciascuno dei due autori, lo stesso Argento afferma di non poterlo stabilire. Zapponi, invece, fu più specifico: «Partii dall’assunto che per riuscire a impaurire profondamente il pubblico, gli si dovessero proporre situazioni nelle quali era facile identificarsi. I suggerimenti più “fisici”, soprattutto nelle scene di omicidio, fui io a fornirli: la donna che viene ustionata nell’acqua bollente o l’omicidio in cui l’attore è sbattuto contro lo spigolo di un comodino. Anche la trovata finale dell’ascensore che decapita Clara Calamai è mia. Nel palazzo di Roma in cui abitavo c’era un vecchio ascensore, di quelli con due pulsanti, uno per la chiamata e uno per l’invio, e lo spunto per la scena mi venne proprio da lì. A Dario spetta, invece, l’idea della medianità, intorno a cui è costruita tutta la prima parte di Profondo rosso. E altre cose le trovammo insieme, ad esempio l’antico delitto alla base del film, in cui ci siamo divertiti a rovesciare lo stereotipo del bambino che, scioccato da un omicidio, da adulto diventa un assassino. Qui era invece l’assassina di un tempo, la madre, quella che continuava a uccidere». Ambientato come Quattro mosche in una città ideale che Argento ricostruisce tra Roma e Torino, dove reinventa piazza CNL collocandovi il famoso bar dei Nottambuli di Edward Hopper, Profondo rosso esaspera l’attenzione quasi manicale per l’architettura, gli ambienti (il lungo corridoio in casa della sensitiva, i quadri “rivelatori”) e i dettagli (la preparazione ritualistica dell’assassino che si trucca gli occhi, i close up sui rubinetti, sulle bocche femminili e sugli strumenti di morte) già presenti nei precedenti film, regalando al cinema italiano una nuova inquietante figura di casa maledetta fuori dallo spazio e dal tempo, in realtà situata sulle colline torinesi.

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Né Argento né Zapponi hanno mia fatto parola, invece, del vero seme da cui Profondo rosso germogliò, cioè di un soggetto che Fabio Piccioni aveva scritto nel 1974, dal titolo Il grido del capricorno. Un giallo che nasceva come sceneggiatura volante per un fumetto horror allora pubblicato in Italia, nella serie Oltretomba. Piccioni lo aveva ceduto, tale soggettino, a Salvatore Argento, il padre di Dario, e poi qualche anno più tardi lo riutilizzò – sempre lui, Piccioni – per un film di Riccardo Freda, Murder Obsession. «Avevo bisogno di soldi. Davanti casa, a Roma, avevo l’ufficio di Salvatore Argento. Eravamo in ottimi rapporti. Sono andato a trovarlo e gli ho chiesto: “Salvatore, c’è niente da farmi fare? Non c’ho soldi…”, perché capitano, queste cose, nella vita. “Mi scrivi un soggetto?”; “Ho questo”, gli dissi, tirando fuori Il grido del capricorno. E gliel’ho venduto per cinqucentomila lire di allora». Così Piccioni. Il quale aggiunge: «Nel soggetto del Grido del capricorno, il protagonista è figlio di un grande direttore d’orchestra, di un von Karajan, tanto per capirci, che gli aveva passato tutte le sue nevrosi. Da lì, odio per la madre e così via…». Questa dimensione, nel film di Argento venne modificata nel tipo di rapporto che lega Carlo (Gabriele Lavia) alla madre (Clara Calamai). Cioè, Argento ha lavorato su quell’embrione e lo ha sviluppato e portato a gestazione nel ventre caldo e bombato del suo Profondo rosso. «Quello che nel mio soggetto non c’era e che è stato sviluppato indipendentemente da Dario, era, invece, tutta la questione parapsicologica, la medianità. L’esoterico. Il trucco era che non si vendeva niente, allora. Si cedeva solo il permesso di utilizzo di una storia. Anche se per fare questo si andava dal notaio e costava pure caro. Io poi mi riservavo il diritto di plagiare me stesso, per dirla con una battuta. E fu così che da quella stessa storia ho poi ricavato anche il film di Freda Murder Obsession», in cui, però, il nome di Piccioni alla sceneggiatura è accreditato. Murder obsession nessuno si sognerebbe mai, così, a freddo, di avvicinarlo a Profondo rosso. Eppure…

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La nascita di La tigre dai denti a sciabola (come pare dovesse inizialmente intitolarsi il film, con un’ideale continuità rispetto alla precedente trilogia zoologica: il titolo provvisorio sui documenti ministeriali risultava, però, Chipsiomega, le ultime tre lettere in sequenza dell’alfabeto greco, che avrebbero dovuto creare caligine e mistero fitto intorno al contenuto della storia; la stessa bizzarria Argento avrebbe inventato per il titolo d’origine, nebuloso, di Tenebre, che fu Sigmatau, prima di trasformarsi in Sotto gli occhi dell’assassino), si salda anche alle vicende personali e sentimentali di Argento, che alla fine del 1972 si era separato dalla prima moglie, Marisa Casale, per convivere con l’attrice Marilù Tolo; una storia che era terminata nel giro di un anno e che viene subliminalmente evocata nel film, quando Daria Nicolodi getta nel cestino la fotografia dell’ex fiamma di David Hemmings. Profondo rosso segna, al contempo, l’apertura di una nuova fase nella vita del regista, sia affettiva sia artistica, grazie  all’incontro con Daria Nicolodi. Fiorentina, figlia di un avvocato e di una letterata, coltissima e appassionata di scienze esoteriche, Daria arrivava da prestigiose esperienze teatrali e cinematografiche (si era formata all’Accademia di Arte Drammatica, studiando con Luca Ronconi e aveva quindi lavorato in film di Francesco Rosi e Elio Petri). La Nicolodi ricordava di essere rimasta stregata dalla visione di L’uccello dalle piume di cristallo e di essersi ripromessa, da allora, di riuscire a lavorare con il regista di quel film: «Incontrai Dario casualmente e quando cominciammo a parlare ci rendemmo conto che in comune, oltre al nome – che era già un bel “segno” – avevamo molte altre cose. Leggevamo gli stessi libri, ci piacevano gli stessi film. La nostra è stata una simbiosi particolare e molto profonda, che si è consolidata durante le riprese di Profondo rosso, che io non ho mai nascosto di considerare un grande film d’amore. Il mio personaggio era, al femminile, quel che era Dario quando faceva il giornalista da ragazzo: in Gianna Brezzi c’è moltissimo, sia di me che di lui».

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Quando Argento girerà Suspiria dichiarerà di essersi drasticamente allontanato dal mondo della realtà a favore della fiaba e del fantastico. Ma Profondo rosso rappresenta, in qualche modo, già una rampa di lancio per questa ulteriore evoluzione della sua poetica: gli elementi surreali vi abbondano, a cominciare dal pupazzo semovente e ghignante («Tutti i miei collaboratori insistevano perché lo togliessi dal film, lo consideravano un’assurdità. Anche mio padre diceva che non aveva senso e che era ridicolo, ma alla fine ho avuto ragione io…»), appare uno pseudobiblion: “Fantasmi di oggi e leggende dell’età moderna”, e talune sequenze contengono più che in nuce delle analoghe di Suspiria (la soggettiva dell’assassino che osserva David Hemmings da una finestra della biblioteca pare evocata da quella del “famiglio” che spia Eva Axen nel film seguente, in una scena in cui si avverte anche l’eredità da Profondo rosso dell’uccisione di Macha Meril). Persino Clara Calamai può essere letta come una sorta di Grande Anziana avant-littre, che prefigura le Madri del successivo ciclo alchemico. In Spaghetti Nightmares, Dario Argento si è diffuso lungamente sulla scelta della Calamai: «Il suo personaggio era quello di un ex attrice che si era ritirata dal cinema, come tante altre colleghe della sua generazione, alle quali gli uomini che avevano sposato impedivano di continuare una professione considerata magari frivola o fatua. Allora ho pensato di prendere una vera ex attrice, che veramente avesse smesso di fare quel mestiere un po’ per ragioni personali, un po’ per la vecchiaia e un po’ perché superata dalle mode. Mi interessava il fatto che tutte queste ex attrici fossero amareggiate, che provassero risentimento verso quel mondo che prima le aveva rese belle e brave e poi le ha dimenticate. Mi dispiaceva molto che queste professioniste portassero nell’animo tutte queste cose, per cui ho voluto farle intravedere nel mio film. […] Nell’appartamento che lei abita nel film, inserimmo nell’arredamento alcuni portaritratti con foto originali dei film che aveva realmente interpretato. Faceva un bell’effetto, era come se la Calamai volesse gridare al mondo: “Guardate tutti, una volta facevo davvero l’attrice ed ero molto brava! Tanto che mi hanno dimenticata”».