La lupa mannara
1976
La lupa mannara è un film 1976, diretto da Rino Di Silvestro.
Pétrus Borel, lionese del 1809. Nato Pierre-Joseph da padre monarchico rovinato dalla Rivoluzione. Architetto mancato. Pittore fallito. Praticò il giornalismo, scrisse romanzi e poesie. E andò a morire in Algeria, a Mostaganem, nel 1859. La sua opera letteraria venne scoperta da Breton e dai surrealisti, calamitati oltre che dai contenuti tenebrosi e strani, anche dal soprannome che Borel si era imposto: “Il licantropo”. Un secolo e trent’anni dopo questo Borel, a Besançon, in Francia (secondo fonti mai ben verificate) o più probabilmente in Svizzera, sarebbe venuta alla luce Annik Borel, destinata a portare su di sé, dentro di sé, come Pétrus, il marchio del lupo. Anzi della lupa. Viene difficile credere a una coincidenza, ma d’altra parte i fatti parlano chiaro, si intenda quelli cinematografici. Questa Borel cominciò a fare l’attrice nel 1970, in America (perché? come ci arrivò?), con il nome Annik Borel – una sola volta si fece chiamare Angie Monet, in un wip –, anni prima di capitare in Italia e interpretare il ruolo che l’avrebbe consacrata, agli occhi dei posteri, come La lupa mannara. Nell’immaginario di noi maniaci di tali faccende, sulla Borel (o comunque si chiamasse realmente) pesano le parole di Rino Di Silvestro il quale diceva di averla scelta per il suo film, La lupa mannara appunto, perché la faccia di questa biondina e la sua espressione possedevano un che di lupesco o di lupigno – che non sono propriamente la stessa cosa: uno è più fisiognomico, lombrosiano, l’altro pertiene più al carattere della voracità, che per antonomasia, trattandosi di Di Silvestro, è quella sessuale. Il mannarismo della Borel, però, è di genere particolare.
C’è un prologo in cui un’antenata della protagonista viene esposta in versione versipelle nel contesto di un suggestivo notturno settecentesco, fuochi, danze, balli, orge, prima di essere acchiappata da bifolchi inferociti che la ardono viva, come lupa e come strega. Di Silvestro, a parte questo ferino bon bon iniziale, non cade tuttavia – come ebbe a dire lui stesso a Nocturno, tanti anni fa – nel “tranello degli ululati e del folklore”. Daniela Neseri (la Borel) figlia di Tino Carraro e sorella di una Dagmar Lassander da onanismo violento, ha uno squilibrio mentale che le nasce, per dirla volgare, dallo stimolo delle ovaie. Seduce gli uomini, li scopa e poi li uccide strappandogli la gola a morsi. Un po’ come in quel bel film contemporaneo di Matt Cimber The Witch Who Came from the Sea (1976) dove la protagonista ammazzava gli uomini perché era stata abusata da piccola. Annik invece li uccide perché la sua bulimia sessuale è catalizzata dal pensiero dell’antenata lupa, che gli uomini misero al rogo. La Borel, scelta bene nella misura in cui la sua patologia più che disgusto riesce a ingenerare tenerezza e pietà – forse era un obiettivo voluto, più probabilmente no, ma comunque lo si raggiunge, esiste – finisce ai matti, in una clinica dove nel lettino di contenzione subisce pesanti attenzioni lesbiche da parte di una paziente ninfomane (Giuliana Giuliani) poi eliminata a forbiciate; quindi scappa dalla clinica e finisce ad accompagnarsi a uno stuntman (Howard Ross), con il quale crea una parvenza di vita normale dentro un villaggio western abbandonato. Di Silvestro e il metacinemabis.
Ma l’alzata di ingegno è trasformare il tutto, verso la fine, in un violento melodrammone nemesiaco, quando un branco di canaglie struprano Daniela e uccidono il suo uomo, scatenando la belva che è in lei in una vendetta che omerica è dir poco. Il tiro al piccione, pardon, alla lupa, con questo film è uno sport praticato da molta gente del nostro ambiente, e non si capisce perché. Gli vengono rimproverate approssimazione tecnica e regia cagnesca – tanto per restare nei parallelismi animali –, ma se c’è un film ben diretto da Di Silvestro, oltre Le deportate della sezione speciale SS, è proprio questo – anche a voler puntualizzare che in entrambe le circostanze vi fosse Sergio D’Offizi alla fotografia. La Borel funziona perché è inquietante già solo come faccia e fisicità – giustappunto quel che ne diceva Di Silvestro – e tutti gli altri interpreti anche – ottimo il monumentale Frederick Stafford nella parte di un ispettore di polizia. E poi è un film simpatico, in maniera imprevista e antitetica alla cupezza del messaggio che cela nel fondo. Anche a voler essere severissimi, non merita niente al di sotto dei tre punti e mezzo.