La bambola di Satana
1969
La bambola di Satana è un film del 1969, diretto da Ferruccio Casapinta.
Prima e unica regia del fantasmatico Ferruccio Casapinta, (nato a quanto pare nel 1928), La bambola di Satana si colloca cronologicamente in quella terra di nessuno dell’horror italiano che sta tra il 1966 e il 1969. Barbara Steele lascia l’Italia, mentre Bava e Margheriti divergono la propria attenzione dall’ortodossia gotica; sembra il capolinea di un certo modo di fare cinema dell’orrore. In realtà, durante il primo lustro degli anni ‘70 si affermerà una sensibilità postgotica che porterà agli esperimenti estetici di Bava, alla compulsione visiva di Polselli, ai primi tentativi di horror di D’Amato. Casapinta queste cose, ovviamente, non le sa né le può predire e gira un film che, pur uscendo nel 1968, contiene l’intuizione della fine del genere, anticipando per certi versi le bizzarrie e le grossolanità di gotici molto più tardi. Quasi uno sguardo nel futuro del filone. La bambola di Satana racconta di Elizabeth e Jack, coppia di giovani fidanzati che si reca in visita a un castello lasciato in eredità alla ragazza da un facoltoso nonno. Lì i due incontrano una governante che tenta di dissuaderli dallo stabilirsi nel maniero, perché, si dice, infestato dai fantasmi di un passato di violenze e brutalità. Nella cantina, in effetti, si trovano una serie di macabre statue che ritraggono gli antenati della giovane Elizabeth mentre vengono orribilmente torturati. Il quadro si complica quando, durante la prima notte trascorsa nel luogo, la ragazza vive inquietanti esperienze allucinatorie. Entrano inoltre in gioco un misterioso assassino e una donna paralitica che occupa una delle stanze e che sembra sapere più di qualcosa sul passato dell’oscura magione.
Gli elementi di un horror a metà tra lo spiritistico e l’investigativo (si intuiscono i prodromi del giallo gotico che sarà di Miraglia) sono tutti al loro posto, ma la regia di Casapinta e le intuizioni almeno discutibili della sceneggiatura spappolano letteralmente il racconto rendendolo tendenzialmente sconclusionato. Al contrario della scrittura che, come detto, è decisamente latitante, l’estetica di La bambola di Satana è motivo d’interesse, non fosse altro per la sua tendenza a mettere in scena tutti i manierismi più ricorrenti del cinema di genere dei tardi anni ‘60. Le inquadrature in campo lungo del castello mostrano bavismi di ritorno quantomeno spiazzanti (nebbie colorate ottenute con improbabili quinte posizionate direttamente in macchina) e un paio di gratuiti piani lunghissimi sul tramonto tradiscono volontà estetizzanti inaspettate. Gli attori sono tra i peggiori che si possano incrociare in una produzione del genere. Erna Schürer nella parte della bionda idiota è a suo agio, ma quando apre bocca è un disastro; il fidanzato Roland Carey, che dovrebbe rappresentare il pragmatismo all’interno di una vicenda sospesa tra allucinazione e magia, non si qualifica nemmeno come attore. I comprimari impegnati nei vari ruoli di contorno, tutti più o meno sconosciuti, si attestano a vari gradi di inettitudine interpretativa. Eppure, strano a dirsi, la cosa funziona. La fissità dei caratteri crea un senso di straniamento che alimenta l’impressione di assistere alla riduzione di un bislacco fumetto giallo-horror sospeso tra serietà e autoparodia, quasi un’anticipazione del ben più compiuto Gli orrori del castello di Norimberga di Bava.
Casapinta, peraltro, gioca a fare Bava per buona parte del film. Quando non è impegnata a farsi strada nella vicenda a forza di campi e controcampi su dialoghi deliranti, la regia si abbandona a zoomate selvagge, prospettive inusuali, momenti di accennata sexploitation. L’incubo in cui Elizabeth si ritrova incatenata al muro mentre un plotone di boia incappucciati frusta i suoi seni nudi (ma sempre coperti da qualche implausibile quinta: un candelabro, un ornamento, una statua…) è pura allucinazione erotica, che si direbbe addirittura protopolselliana. L’austera governante occhialuta osserva compiaciuta, mentre a ogni frustata uno zoom impazzito punta allo straniamento dello spettatore (o, al limite, al mal di mare). Film con un paio di intuizioni felici e, a loro modo, in anticipo sui tempi, contornate da un’ora abbondante di noia, La bambola di Satana è una di quelle curiosità che non ci dispiace davvero di aver (ri)scoperto.