Sella d’argento
1978
Dello spaghetti-western a Fulci non interessa più scavare recondite gallerie discorsive, ma conservare i quadri di un’illustrazione cristallizzata che assume la coscienza dell’insieme delle potenzialità e dei limiti dell’epopea.
Un bambino di dieci anni vendica l’assasinio di suo padre uccidendo i killer che lo hanno freddato sotto i suoi occhi. Cresciuto, diventato un famoso pistolero conosciuto come Sella d’Argento, è mosso da un feroce odio nei confronti della casata dei Barret, cui apparteneva l’uomo che gli aveva ammazzato il padre.
Annegato in una fotografia arancio, come evocazione di una pagina ingiallita della storia di un passato di desolata spietatezza, il prologo di Sella d’argento è un brevissimo e succinto film a se stante. È l’essenzialità del western all’italiana e possiede l’elegante lucentezza di un diamante incastonato nella materia fredda, quasi mineraria, di una pellicola tra le meno amate in assoluto di Lucio Fulci. Poco memorabile come sigillo ultimativo del genere a cui gli si preferisce volentieri il manieristico e struggente Keoma (1975) di Enzo G. Castellari, tuttavia il terzo ingresso di Fulci nei territori del western, prodotto dalla Cineriz, conserva a futura memoria un carattere di definitezza, che gli deriva dal tirare i fili di un’ampia produzione di genere che ha annoverato in Italia più di cinquecento titoli, per andare a svuotarla del carico di violenza esasperata che via via aveva assunto negli esiti più recenti.
Fa dichiaratamente un’operazione di nostalgia. Fulci aveva già chiuso il conto con il western, seppellendolo tre anni prima con quel film dalle valenze ampiamente metafisiche che è I quattro dell’Apocalisse (1975). Compreso che il pubblico si stava sempre più dividendo, in particolare tra ragazzi e adulti, che questo divario diveniva necessario alla sopravvivenza stessa del poter fare cinema di genere, nonostante l’entropia data dalla crisi incipiente, il regista sembra non preoccuparsi di realizzare pellicole aurorali come questa, con protagonista Giuliano Gemma, che preconizza la futura interpretazione in Tex e il signore degli abissi (1985), o come i due precedenti Zanna Bianca. Dello spaghetti-western a Fulci non interessa più scavare recondite gallerie discorsive, ma conservare i quadri di un’illustrazione cristallizzata (scene di Carlo Simi) che assume la coscienza dell’insieme delle potenzialità e dei limiti dell’ epopea caratterizzata da pistole, stivali e cavalli galoppanti per porgerla a una generazione di giovanissimi, abituati ai fumetti di cowboys e banditi di un altro formato.
In Sella d’argento il simulacro rappresentato dall’oggetto del titolo, con cui s’identifica il protagonista Roy Blood, e con il quale viene nominato nella fama della leggenda che lo avvolge è la testimonianza gloriosa di un tempo sicuramente eroico e scintillante ma efferato, trascorso, che aleggia per tutta la durata della storia come una rimembranza perduta. La sella cromata accompagna un personaggio solitario, cresciuto con le sue stesse forze e diventato un temibile pistolero, lungo i sentieri di una vita screziata di sangue. Incontrando la miseria umana (il viscido “Serpente due colpi”, che ruba ai cadaveri), l’innocenza (del nipotino dai capelli biondi a cascetto di Barrett, quel suo nemico lontano) che lui stesso aveva smarrito molto presto, e la possibilità di innamorarsi di una donna (Cinzia Monreale), Giuliano Gemma rinuncia all’antica vendetta, scegliendo di vivere l’ultimo scorcio della ‘frontiera’ in un’avventura, non più costellata di cadaveri e violenza.