Featured Image

On the ice

Titolo Originale:
On the Ice
REGIA:
Andrew Okpeaha McLean
CAST:
Josiah Patkotak
Frank Qutuq Irelan
John Miller

Il nostro giudizio

A Barrow, estremo settentrione d’Alaska, una banale rissa si volge in un delitto: l’esordiente Andrew Okpeaha McLean dirige una storia struggente di amicizia e violenza, in cui l’odio concede però spazio alla remissione delle colpe…

Quello di Andrew Okpeaha McLean è un cinema elementare, nel senso etimologico, cioè un cinema degli elementi che, partendo dall’acqua e dalle sue diramazioni (la neve e i ghiacci maestosi) sublima il concetto di umanità per trasfondersi in qualcosa di quasi paganeggiante, ove l’essere umano, impotente dinnanzi a tanta avvilente magnificenza, è destinato a sottomettersi all’eterna contemplazione dell’immenso. È proprio la bellezza, con paradossale antinomia, a innervare la pellicola di questo (per ora) misconosciuto talento di Barrow, l’estremo settentrione d’Alaska, una bellezza complessa e avvincente che, proprio come nel suo cortometraggio d’esordio, Sikumi (2008), scivola lungo i crinali congelati, mescolandosi con un cielo bigio e infinito fino a quando le due grandi polarità, Urano e Gea, il cielo e la terra, si fondono in una totalità bianca.

Potrà anche non piacere, ma il cinema americano ha ormai spostato il mito della frontiera (l’unica autentica mitopoiesi della cultura statunitense) dal vecchio West al profondo Nord, scegliendo l’avamposto più sperduto come una sorta di finis mundi della civiltà. Opere come 30 giorni di buio (2007) o il recente The Grey (2011) hanno fatto assumere all’Alaska i fumosi contorni di una vera e propria topica di genere, che sostituisce la conquista dello spazio naturale con la remissività dei suoi abitatori, e la virilità con la più crepuscolare e struggente riflessione emotiva. Un villaggio di inupiat (un gruppo etnico simile agli eschimesi) apre la narrazione in modo quasi corale: il lavoro di tutti i giorni, la caccia alle foche, la pesca, giovani alle prese con una vita che offrirà loro la stessa occupazione dei padri. Saranno forse la disperazione e lo sconforto per un’esistenza grama a spingere due ragazzini a compiere un gesto tanto irresponsabile quanto sconsiderato, e a non volerne, con altrettanto ineluttabile scoramento, pagare le conseguenze.
On the Ice affronta l’omicidio non come un atto di sangue o come un banale incidente, bensì come un percorso spirituale che parte dalla colpa e dalla sua rimozione (l’occultamento del corpo non già per timore della galera, piuttosto per paura del giudizio parentale e patriarcale) fino all’accettazione del delitto e alla redenzione. McLean non lavora sul perdono, ma preferisce concentrarsi su quel limbo oscuro e indefinibile che potremmo idealmente chiamare rimorso e che, in modo del tutto inconsapevole rispetto ai piani ben congegnati dei due assassini, si insinua nelle loro anime spezzandone le difese emotive prima, facendoli (freudianamente) confessare poi, spingendoli a riparare il danno infine. Chi volesse sapere cosa resti di tale crimine innominabile e tutto sommato privo di un movente specifico, altro non ha da fare che cercare la sua risposta proprio nella materia da cui esso ha tratto linfa e sussistenza: l’eterna e indissolubile distesa ghiacciata che, in sordina, si sfrangia e si frantuma rivelando quanto si sarebbe invece ritenuto occultato per sempre. Nella debole e opaca luce del sole, quello stesso sole che in Alaska s’eclissa per due mesi consecutivi, ma che al tempo medesimo risplende incessantemente fino ad agosto, i peccati degli uomini accarezzano la superficie del castigo. Illuminandosi di salvezza, immergendosi (forse) in un’auspicabile remissione.