Mary Reilly
1996
Un melodramma in bilico tra orrore e sentimento, magistralmente interpretato da Julia Roberts e John Malkovich.
Le contaminazioni, i prestiti e i saccheggi tra il capolavoro di Stevenson e la settima arte risalgono ai primissimi anni del muto, e ormai non si contano nemmeno più proprio perché è difficile tenerne un elenco accurato. Si va o si andrebbe da Otis Turner, con la sua pellicola del 1908, fino a un annunciato Jekyll and Hyde di Abel Ferrara. Tra i due opposti si collocano film noti e meno noti, come l’impronunciabile versione danese di August Blom (1910) e il più accessibile La testa di Giano (1920) di Murnau. Per non dimenticare la trasposizione di Mamoulian che il 6 agosto 1932 inaugurò il primo Festival di Venezia.
Anche Stephen Frears ha voluto omaggiare la coppia letteraria Jekyll/Hyde con questo film, stando agli incassi e alla ricezione critica, piuttosto sfortunato. In realtà le cose non sono così lineari, perché la pellicola non sarebbe filiazione diretta di Stevenson, piuttosto figliastra di ulteriori adattamenti narrativi. D’altronde se qualcuno la butta sul romantico, la colpa è di una donna. Chercherz la femme. Rea di bontà profusa per il povero Hyde, qui dipinto come un gentleman perverso ma tutto sommato capace di amare, è la scrittrice americana Valerie Martin, che ha pensato bene di riscrivere la storia del folle medico dal punto di vista della cameriera (la Mary Reilly del titolo interpretata da una brava, morigerata, Julia Roberts).
Mary è una ragazza umile che dalla vita ne ha subite tante, dalle attenzioni “particolari” del padre (Michael Gambon) fino alle umiliazioni degne di un nazi-erotico con tanto di pantegana che si scava un cunicolo nelle sue carni. Ce ne sarebbe abbastanza per tacciare il tutto di crudeltà fine a se stessa, ma poi Frears si dà un calmata e fa il sentimentale, condendo una storia di attrazione e repulsione con qualche testa amputata (quella di Glenn Close, per la cronaca) e un lord massacrato a bastonate. La Roberts è impeccabile nella parte di una servetta attratta sia dallo zelante Jekyll che dal perfido Hyde, entrambi animati dal volto polimorfo di John Malkovich. Forse la novità del film sta proprio in questo, non tanto nel cambio di prospettiva analitica o di punto di vista, ma nell’ossessione amorosa che si sdoppia, si scinde per il buono e il cattivo della situazione. Se Jekyll rappresenta l’affetto, con i suoi modi premurosi e beneducati, Hyde ne è la negazione e il completamento speculare, incarnando egli il furore erotico, il desiderio represso, la carnalità più spinta. Le soluzioni visive non mancano certo, dal sogno a luci rosse della Roberts che si immagina un Hyde dalla lingua lunghissima che se la lecca tutta, fino alla trasformazione finale di Hyde in Jekyll. Una scena lacerante, in cui i due gemelli siamesi si riuniscono, si fondono, uno che prende il sopravvento, l’altro che si muta in feto, in propaggine, ed è riassorbito all’istante dal corpo del buon dottore. Poi, certo, il resto fa brodo, come le frasi di rito che Jekyll pronuncia (“volevo essere il coltello e la ferita al tempo stesso”) per elevare il tutto al rango di film d’essai.
La love-story non cade comunque mai nel patetico, forse i toni sono qua e là un po’ troppo accesi ma il risultato finale è un melodramma gotico e intimistico che non concede (molto) spazio alla violenza.