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The traveler

2010
Titolo Originale:
The traveler
REGIA:
Michael Oblowitz
CAST:
Val Kilmer
Dylan Neal
Paul McGillion

Il nostro giudizio

Dal regista di Breed, un horror a base di vendette ultraterrene: in The traveler efferati omicidi e violenza gratuita in un film che non convince.

Uno sconosciuto dagli occhi di ghiaccio si reca in una stazione di polizia e dichiara di aver ucciso sei persone. Sei come i poliziotti che sono di guardia quella notte. L’uomo, che si fa chiamare Mr. Nobody, comincia a raccontare i particolari più truci dei delitti. E mentre confessa, ecco che gli agenti, uno ad uno, vengono massacrati in modi abominevoli, senza che nessuno capisca come e perché. Unico indizio: le armi impiegate sono le stesse che, tempo prima, messe in mano ai poliziotti, avevano torturato un detenuto sospettato di rapimento e omicidio. Che il misterioso penitente sia un fantasma in cerca di vendetta?

Notte buia e tempestosa con poliziotti violenti. All’inizio pare di assistere a una storia di fantasmi con risvolto vendicativo, poi un filino di noia comincia a serpeggiare e, causa eccessiva lunghezza del film (novantacinque minuti in cui succede troppo poco), ci si convince che tutto sommato il gioco non ne valeva la candela. È strano, ma da uno che ha lavorato con nomi del calibro di Joseph Kosuth e Vito Acconci ti aspetti qualcosa di stuzzicante, invece niente. Rimani lì con l’acquolina in bocca, nell’attesa che l’antipasto un po’ raffermo, ma tutto sommato commestibile, vada giù per il gargarozzo. E che magari qualcuno si affretti con i primi piatti.

Alla fine Oblowitz con The traveler fa un filmuccio degno del proverbiale letto di Procuste, tirato di sopra per fargli spuntare la testa e arpionato di sotto per allungargli le gambe. Quello che viene fuori dal tiremmolla è un prodotto deformato e asimmetrico che, pur stando in piedi anche senza stampelle, invidierà per sempre l’armonia di un bel corpo e la regolarità dei suoi arti. Eppure l’idea non era malaccio, anzi, se fosse stata ridotta a un medio-metraggio o a un episodio televisivo, avrebbe anche guadagnato qualche punto. Meno tempi morti e più densità narrativa.

Invece no, per riempire le voragini di sceneggiatura si vira allo splatter, con scene di lunghezza francamente disturbante, come quella in cui la poliziotta cattiva (Camille Sullivan) viene soffocata da un sacchetto di plastica e, mentre tira le cuoia, un coltellaccio invisibile la sventra come una tacchina. Chi più ne ha più ne metta. Le salsicce dell’intestino schizzano da tutte le parti per interi minuti, non si sa a che pro, forse per disgustare lo spettatore, forse perché qualcuno non capisce che se bastasse infarcire un film di effetti sanguinosi saremmo tutti registi. Fatto sta che Val Kilmer se ne sta lì impalato tutto il tempo a biascicare monosillabi, e se nel finale l’ispettore Black (Dylan Neal) si trafigge le orecchie a colpi di stilografica è solo per non sentirne i continui borbottii.

Chi di spada ferisce di spada perisce. È proprio al contrappasso dantesco, o perlomeno a un suo surrogato, che il sulfureo Oblowitz si ispira, tessendo una rete di delitti la cui l’efferatezza è somministrata in diretta proporzione alla violenza che si è commessa. Il poliziotto che taglia la lingua al sospettato subirà la medesima mutilazione, così come il misterioso giustiziere, per vendicarsi delle badilate subite in vita, spalerà in giro le budella del suo carnefice. Dopo aver frugato per bene nel suo torso scoperchiato. E così via, di atrocità in atrocità. Qualche scena ad effetto comunque c’è. Per esempio, quella in cui il paffuto Chris Gauthier finisce impiccato e il suo corpo, oscillando all’esterno della centrale, appare al lumeggiare dei lampi come la macabra silhouette di una pellicola noir. Per il resto lo spettatore arranca fino al termine della proiezione quando, vinto dal torpore e dall’uggia di una serata piovosa, nemmeno nota il mezzo twist finale.