Lo Splat Pack

Al critico inglese Alan Jones spetta il merito (?) di avere inventato la dicitura Splat-pack per definire il cinema estremo che piace anche alle grandi platee. E poi c’è il gorno, sintesi tra gore e porno…
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Nel tentativo di codificare il cinema horror del nuovo millennio il gaio Alan Jones su Total Film si è inventato il termine splat-pack per indicare quelli che, a suo dire, sarebbero i nomi di spicco del torture porn (ma conoscendo Alan, il termine “torture porn” non me lo passerebbe proprio!). Della fratellanza farebbero parte: Eli Roth (e ci siamo), James Wan e Derren Lynn Bousman (la saga di Saw), Rob Zombie (ça va sans dire), Greg McLean (Wolf Creek, volendo… prendendola alla larga), Alexande Aja (Alta tensione) e Neil Marshall (The Descent). La scelta di Alan, per quanto parziale, era sicuramente ragionata. Con questi magnifici sette indicava abbastanza precisamente i nomi di quelli che hanno avuto modo di scrivere le pagine più interessanti del moderno cinema dell’orrore. Certo, la selezione diede adito a non poche polemiche sui forum e alcune obiezioni non sono del tutto immotivate. Ci si domandava, ad esempio, come mai fossero stati esclusi registi come – tanto per fare qualche nome – Christopher Smith (Creep), James Gunn (Slither), Lucky McKee (May) e Jonathan Liebesman (Non aprite quella porta – l’inizio).

Diciamo che innanzitutto Smith (soprattutto con Severance) e Gunn propendono più verso un horror ironico che non soddisfa la componente “torture”, che Lucky McKee è fondamentalmente un romantico, e Liebesman, pur confezionando un horror pregno di tutte le caratteristiche, del genere non è stato seminale. Insomma, quello che hanno fatto i membri dello splat-pack è stato codificare i meccanismi del genere, renderlo popolare e segnarne le derive. Certo, non tutti i film hanno come tema centrale le torture. In Wolf Creek (2005) il redneck che fa mattanza di giovinastri nel deserto australiano è un’evoluzione grottesca dei vari maniaci mascherati dello slasher, ma la sua propensione alla crudeltà è innegabile. A una ragazza amputa le dita della mano, a un’altra strappa la spina dorsale e il ragazzo viene crocefisso come un novello Cristo. E che dire del meraviglioso Philippe Nahon di Alta tensione (2003)? Col suo berretto calato e la testa mozzata a fargli un pompino in macchina? Non è un torturatore, ma un feroce assassino che si nutre del dolore delle sue vittime. Stessa filosofia (con qualche lieve propensione alla tortura in più) per i mutanti di Le colline hanno gli occhi (The Hills Have Eyes, 2006). Ancora meno legato al tema invece è The Descent (2005), con il gruppo di giovani escursioniste alle prese con mostri antropomorfi nei claustrofobici meandri della grotta dei supplizi. Eppure un filo rosso che lega tutti i membri dello splat-pack c’è. Innanzitutto sono stati i pionieri del genere. Secondo: nei loro film non si ride (quasi) mai (a volte Eli Roth fa un po’ il cazzone, ma ci può stare). Sono registi che prendono l’horror molto sul serio e amano essere crudeli non solo con le loro vittime ma anche con lo spettatore. E siccome non c’è due senza tre, non scordiamoci che sono stati i primi a raccontare (nuovamente) la morte con violenza grafica e dovizia di particolari come non si vedeva da anni sul grande schermo. Insomma, proprio quelle caratteristiche che (abbiamo detto) definiscono il torture porn.

GORNO O GORENOGRAPHY-FILMS

Gorno, neologismo nato dall’incrocio tra gore e porno. Praticamente viene usato come sinonimo di torture-porn. Il termine è attribuito a tale Geoff Boucher del Los Angeles Times. Rispetto al “torture” è più pertinente con quello che rappresenta la new wave dell’horror moderno. E in questo caso trovano facilmente posto pellicole come Non aprite quella porta – l’inizio, Le colline hanno gli occhi e Il collezionista di occhi (See No Evil , 2006), tanto per citarne uno nuovo. Pellicole in cui sadismo e violenza si sposano amabilmente con una sana propensione allo splatter.
Se consideriamo torture anche certe pratiche ospedaliere che si consumano ai danni di pazienti coscienti, allora un precursore del genere è stato di sicuro il tedesco Anatomy (2000) di Stefan Ruzowitzky con la setta di Anti-ippocratici che vivisezionano ancora vivi malati terminali per scopi scientifici. Il film era una mezza sòla, ma incassò un botto in patria e fu esportato ovunque nel mondo; Ruzowitzky fece pure il sequel, ma in questo caso di torture manco l’ombra. Meglio Death Tunnel – La maledizione di Philip Adrian Booth (che fa schifo, ma i supplizi a cui sono sottoposti i pazienti dell’ospedale maledetto non te lo mandano mica a dire), o Sublime di Tony Krantz (con i massaggi “frantumaossa” del nerboruto Mandingo, Lawrence Hilton-Jacobs), o ancora Turistas di John Stockwell (con l’esproprio di organi a una giovinastra-in-bikini tenuta volutamente sveglia), che ha molti punti di contatto con Hostel soprattutto nella rappresentazione dello “straniero”.
Il meglio però lo offre come al solito Rob Zombie che in La casa dei 1000 corpi (House of 1000 Corpses, 2003) ci regala l’impareggiabile figura del Dr Satan, un simpatico dottore schizoide che affligge i suoi mutuati con dolorose operazioni a cranio scoperto… ovviamente senza anestesia. Lasciamo perdere poi tutta la pletora di prodotti direct to video partoriti dall’insano mercato degli ultra indi a budget zero. Cose immonde tipo Brutal (2007) di Ethan Wiley, la cui tagline prometteva: “un Hostel che incontra Il silenzio degli innocenti”, Chainsaw Sally (2004) di Jimmyo Burryl e Stephen Kay o Hostile (2007) la porno-gay-parodia di Hostel diretta da Roland Dane. Difficile inquadrare questi film all’interno del torture porn proprio perché, pur garantendo magari i requisiti minimi di contenuto, difettano di un ingrediente fondamentale: il mainstream. Proprio perché, come abbiamo già detto, il torture porn è mainstream.