La dismisura giapponese: Takashi Miike
Takashi Miike cooptato tra i realizzatori dei Masters of Horror tiene fede alla propria tradizione sadica e a quella del Sol Levante.
Leggevamo, durante il nostro solito girovagabondare per il web, un’intervista rilasciata da Masaru Konuma che potrebbe riassumere un certo atteggiamento culturale nipponico davanti alla perversione. In pratica, l’autore, noto per i suoi film sadomaso targati Nikkatsu, affermava di usare il cinema come medium per sfogare le proprie immoralità, disegnando situazioni che non sarebbe mai riuscito a vivere nella vita normale: stupri, violenze, torture e altre barbarie, potenziate dal cinema per diventare esibizione gratuita e pornografica, installazione performativa dei propri sogni proibiti. Il grande schermo, insomma, come cesso dove buttare ed esorcizzare morbosità e tic: designare, attraverso la messa in scena, la violenza repressa radicata in ogni uomo. Non ci sembra un caso che quella giapponese rimanga una delle correnti espressive (che passano dai film ai fumetti, dalla fotografia alla pittura) più estreme del mondo: e non stiamo parlando di circuiti underground (come potrebbe essere considerato Bruce LaBruce in Canada), bensì di vere e proprie scene mainstream.
L’esempio più lampante, ovviamente, rimane uno degli autori più prolifici e versatili del pianeta, ovvero Takashi Miike, il quale ha certamente contribuito, nel corso dei decenni, a dare un’immagine nocturniana al cinema nipponico, tanto da esser stato chiamato, nel 2005, alla corte di Mick Garris e dell’emittente statunitense ShowTime per girare un episodio della serie antologica Masters of Horror. Il segmento si chiama Imprint (tradotto in italiano come Sulle tracce del terrore) e ha ben due particolarità: non solo è l’unico film del collettivo a esser stato girato da un cineasta asiatico, ma anche il primo ad esser stato bloccato dalla messa in onda televisiva, in quanto ritenuto dalla produzione troppo violento e disturbante. Ancora una volta, quindi, nonostante gli altri episodi portassero le firme di autori come Dario Argento, John Carpenter e Joe Dante (non certamente i registi più lindi del panorama), guarda caso a finire nella polemica come oggetto più estremo e violento è esattamente una pellicola del sol levante. Merito, con tutta probabilità, della lunga scena di tortura che coinvolge la protagonista, una prostituta accusata di aver rubato dalla padrona di un bordello sperduto in mezzo al nulla. Qui, Miike allestisce un vero e proprio cruento spettacolo di violenza, inquadrando freddamente il lacerante dolore di una donna martoriata e immersa nell’umiliazione. Vengono irrimediabilmente in mente, per chiudere il cerchio, proprio le pellicole di Konuma, e in particolare le torture inflitte al corpo devastato della divina Naomi Tani: la violenza, insomma, non per fini narrativi, bensì estetici, in un’autentica performance del dolore in cui il regista osserva e scruta con ansimo feticista ogni microdettaglio di malessere fisico. E noi con lui.
Miike non è un novizio della violenza, ma il più delle volte nei suoi film gli elementi grafici arrivano scattanti se non cartooneschi (e pensiamo a Ichi The Killer), rapidi come delle teste mozzate improvvisamente o una pioggia sparata di splatter. Qui, invece, lo vediamo giocare proprio col sadismo di chi non si accontenta più solo di divertirsi con la violenza, ma di uno che questa violenza vuole iniettarla direttamente in vena a chi guarda, sottopelle e oltre il semplice contatto visivo e ludico. Per questo il cineasta non ha bisogno di usare sangue, stavolta, perché il dolore passa attraverso affilatissimi aghi che s’infilano impercettibili eppur vivissimi nei nostri punti nervosi. Lo spettatore, di fronte a Imprint, diventa un maniaco voyeur e contemporaneamente una cavia da esperimento sottoposto alla Cura Ludovico: vien da chiudere gli occhi (o da strapparseli), ma nel contempo a rimanere è l’attrazione fatale verso la concretezza delle immagini che affogano di ansia scorrendo brutalissime e feroci. Un modus operandi, questo, che arriva a ricordarci alcuni fra i misteriosi oggetti cult dei Guinea Pig anni ’80: puro e fallace spasmo, rappresentazione cruda della violenza come spettacolo-incubo da osservare con gli occhi fuori dalle orbite e tremanti nella propria poltrona; insomma, l’essenza più disturbante del torture porn. Sullo sfondo, le urla squarciate della povera vittima, il suo corpo ormai deformatosi dalla sofferenza: Miike allestisce un freak show del male, di quelli che partono lenti da sembrare quasi sedati, prima di esplodere in un climax, in cui a trionfare è la più degenerata delle malattie, la nostra cara e vecchia mostruosità.