Quattro mosche di velluto grigio
1971
Quattro mosche di velluto grigio è film del 1971, diretto da Dario Argento.
Quattro mosche di velluto grigio non è tanto il film che arriva dopo Il gatto a nove code, quanto quello che viene prima di Profondo rosso. E prima di Suspiria – in cui porterà il ricordo di una scena geniale: la rotazione della macchina da presa nella sala di contenzione bianca con stacco improvviso sull’astuccio di rasoio, aperto e pronto all’uso. Le cinque giornate che sta in mezzo non conta niente, non sposta una virgola nell’universo del regista. È interessante valutare Quattro mosche ex post e non ex ante, perché Argento già manifesta la voglia di correre incontro al fantastico pur mantenendo gli stilemi di un giallo. Non a caso, la prima stesura dello script coinvolgeva la telepatia, poi cassata e successivamente innestata dentro Profondo rosso. Anche l’urbanistica onirica, frastagliata, dechirichiana del film, la città Frankenstein cucita di pezzi eterogenei di tanti posti diversi, tradisce il desiderio di mettersi con un piede fuori dalla ragione.
Quattro mosche di velluto grigio, perciò, è diviso tra due volontà, due pensieri: quello di Argento che continua a fare Argento e che si trascina dietro scorie e sedimenti dall’unico libro che sembra avere letto e succhiato fin nel midollo, La statua che urla, da cui mutua il personaggio di Bud Spencer, Dio, e altra robetta senza peso; e quello che si libra in un cielo già metafisico, come nella sequenza ricorrente della decapitazione, che rappresenta perfettamente il nuovo Argento, avanti di dieci anni rispetto alla data del film – chi cita Sergio Leone per il rallenti non ha capito nulla di Leone e non ha capito nulla di Argento: che lì è solo, è lui e non paga debiti alcuni. Anche la cooperazione della colonna sonora si è fatta potente: non si era visto né nell’Uccello dalle piume di cristallo né nel Gatto a nove code qualcosa di simile alla sequenza finale a rallentatore, con la musica addosso, sopra e dentro il balletto estenuante della lama e dei vetri che esplodono e schizzano via con la testa di Nina. Il più bel finale di tutto il cinema di Argento. Poi c’è la dimensione autobiografica dei personaggi di Michael Brandon e di Mimsy Farmer, che non è immediata, ma studiandola si capisce come alla fase di passaggio della vita privata di Argento che si apprestava a lasciare Marisa Casale (della quale pare che la Farmer fosse una specie di copia perfetta, e d’altra parte anche Brandon poteva passare per un sosia, in bello, del regista) e a mettersi con Marilù Tolo, equivalesse la mutazione del suo cinema verso l’irrazionale e il selvaggio.
Morti e delitti, che sono sempre lo specchio più veritiero dell’essenza ultima di un film di Argento, in Quattro mosche di velluto grigio si divaricano tra il basso realismo dell’uccisione di Jean Pierre Marielle all’interno di un cesso pubblico e l’esecuzione rarefatta di Marisa Fabbri nel parco, fuori dal tempo, dove il giorno si rovescia improvvisamente nella notte e dove è l’ambiente, prima che dell’assassino, a tendere alla vittima una trappola mortale. E queste sono faccende e intuizioni molto raffinate che Argento espanderà alla massima potenza nei film fantastici, dove i luoghi saranno sempre presenze rarefatte e omicide, prosopopee dei killer che vi si nascondono. La stesura originaria della sceneggiatura di Quattro mosche di velluto grigio raccontava una storia che iniziava dalla fine. Doveva trattarsi di una vicenda molto più onirica di quella poi finita sullo schermo che Argento riscrisse completamente nel momento in cui uno dei suoi co-sceneggiatori, Mario Foglietti, gli suggerì l’immagine di un uomo che viene fotografato nell’atto di commettere un omicidio.