Opera
1987
Opera è un film del 1987, diretto da Dario Argento.
Dopo un brutto periodo, trascorso fra divorzi e processi giudiziari, Dario Argento ha la bella pensata di proporre, per la stagione lirica di Macerata, una versione horror del Rigoletto, opera verdiana dalle tinte piuttosto fosche (il gobbo Rigoletto scopre di avere una figlia segreta; nel bel mezzo di un agguato, teso per far fuori uno spasimante sottaniere, uccide la ragazza bastonandola e affogandola, dopo averla chiusa in un sacco). Dopo un primo, timido, approccio, gli organizzatori si spaventano per la versione particolarmente truce proposta dal regista romano e fanno la loro regolare marcia indietro; la qual cosa sembra scatenare in Argento il desiderio di vendicarsi, trasformando il mondo della lirica nel palcoscenico ideale di misteriosi e violenti fatti di sangue e opere maledette. Questa sua intenzione di pareggiare i conti, si evidenzia chiara e abbondante nella prima (piano)sequenza di Opera, dove la soprano, che dovrebbe interpretare Lady Macbeth (ancora e sempre Verdi) si allontana indispettita dal palco a causa delle trovate registiche troppo terrificanti e pericolose: corvi in scena, mascheroni a forma di teschio, fumi e altri ammennicoli horror. Ma anche se appare chiaro che una lettura legata alle sfortunate vicende del passato è voluta e più volte sottolineata (nell’universo diegetico Mark, il cineasta horror chiamato a dirigere l’opera al Regio di Parma, era stato criticato in passato, per una versione particolarmente cruenta del Rigoletto) è però interessante cercare di indagare il meccanismo di moltiplicazione e (s)velamento dei punti di vista che Argento mette in scena.
Se l’occhio, come (s)oggetto di visione, è un suo classico pallino, in Opera questa sua voglia di lavorare sulle sue varie forme e sostanze, si scatena. Il film parte con la platea del teatro ripresa attraverso il riflesso nell’occhio di un corvo; la giovane soprano protagonista, ha un incubo ricorrente in cui, in soggettiva, cerca di mettere a fuoco una situazione che rimane oltre una cortina di nebbie e ombre, fino alla soluzione finale in cui la madre, vittima e carnefice, le appare riflessa in uno specchio mentre guarda il suo giovane amante mentre sevizia altre ragazze, in una specie di casa delle torture. I punti di vista si moltiplicano e si complicano: binocoli, balconi, feritoie, condotti d’aria, fino ad arrivare allo spioncino della porta, che acquista una particolare dimensione di finestra sull’orrore: Betty, la giovane soprano, vede attraverso l’occhio nella porta la vicina di casa intrattenersi con un cliente (la stessa donna, poi, maltratterà la propria figlia per aver salvato la protagonista da morte certa) e, successivamente, la manager della ragazza si beccherà un proiettile in testa, sparato attraverso il sottile cunicolo di vetro, in una delle sequenze più tese di tutto il film. Infine, Betty è costretta, spesso e volentieri, a rivivere l’esperienza materna: legata, imbavagliata e con gli occhi spalancati con aghi quasi confitti nelle palpebre, deve osservare il suo sodale e carnefice macellare i suoi conoscenti. Ma se quella della madre era una violenza subita in modo volontario ed era latrice di una potenza erotica inesauribile, questa della ragazza è legata a una ripetizione costante, e svilente, di un rito in cui si trova spogliata della dimensione sessuale: tant’è che l’assassino le sfiora appena il seno, poi si allontana sempre, senza concludere nulla.
Argento dunque, sovrapponendo la figura della madre con quella della figlia, crea uno slittamento di posto e sostituisce lo spettatore alla ragazza, e trasforma la visione dell’orrore, in qualcosa che è chiaramente rituale: c’è una ricerca della vittima, si mette in scena una danza erotica di morte, ci sono un sacerdote (l’assassino) e un concelebrante (prima la madre, poi la figlia: una sorta di lascito ereditario) necessari e complementari, c’è infine l’esecuzione dell’agnello sacrificale, ucciso a coltellate e macellato affinchè la magia si compia. Ma è chiaro che qualcosa si rompe: Betty non è come la madre e il circolo non si conclude. L’occhio non è più quell’orifizio pre-erotico da stimolare, che serviva alla donna, legata nella casa delle torture, per trasformarsi nella dea del sesso che l’assassino cerca di far emergere anche nella figlia. L’occhio di Betty è un occhio sofferente, che vuole restare vergine e che sanguina lacrime senza rompere definitivamente le proprie resistenze. Così, il mostro è costretto a mettere in scena un’uscita definitiva: dopo essere stato accecato dal corvo (uccello psicopompo per eccellenza), benda (e dunque priva della vista, quasi acceca) anche la propria controparte rituale, Betty, e attraverso il fuoco, finge di purificarsi e di scomparire. Argento, con Opera, sembra cercare uno sfogo creativo: muove la macchina da presa come se fosse in trance, crea sequenze ipertensive, come la “partita a scacchi” fra l’assassino, le due donne e il poliziotto Daniele Soave, (un omaggio al suo assistente di seconda unità, Michele Soavi?) e si inventa un gabbione pieno di corvi che irrompe in scena, squarciando le quinte del teatro.