Il giallo italiano “bastardo” degli anni Sessanta
La pianta velenosa del giallo all’italiana affonda le radici in un terreno che lo nutre di succhi ibridi: il giallo ai confini con il gotico e mescolato alla commedia…
Nei decenni precedenti il 1960 con difficoltà si riscontrano tracce di giallo nel cinema italiano e le uniche varianti in qualche modo accostabili al genere sono piuttosto quelle del dramma sociale e del racconto criminoso di stampo americano, già praticato da Pietro Germi. Inutile dire che proprio questo secondo caso tocca marginalmente il campo da noi indagato, con storie nere di rapine che si lasciano dietro una scia di sangue, come nel caso di Un alibi per morire di Roberto Montero, Trappola per l’assassino di Riccardo Freda e Lasciapassare per il morto di Mario Gariazzo (tutti del 1961); oppure, nella seconda metà del decennio, sulla scorta del successo dei film di James Bond, con vicende che sconfinano nello spionistico, come Omicidio per appuntamento (1966) di Mino Guerrini, I diamanti che nessuno voleva rubare (1967) di Gino Mangini e Un corpo caldo per l’inferno di Franco Montemurro (1968). È tuttavia il gotico, sulla scorta dell’enorme successo ottenuto dal Dracula di Terence Fisher, uno dei primi generi ad emergere e a contaminare il giallo. Ma l’Italia è pur sempre il Paese del “neorealismo” e non si vuole rischiare fino in fondo: registi e sceneggiatori si nascondono dietro assurdi pseudonimi anglofoni, le storie vengono ambientate in oscure località scozzesi o in non meglio specificati castelli della Cornovaglia e, anche laddove ci si trovi sul suolo italico, misteriosamente i protagonisti portano ridicoli nomi (o meglio cognomi) inglesi. Insomma, gli stessi autori non ci credono fino in fondo o, quantomeno, ritengono che sia il pubblico a non essere pronto. Per lo stesso motivo non si osa calcare più di tanto il pedale sul fantastico e film orrorifici in tutto e per tutto come quelli di Riccardo Freda, per fare un esempio, sterzano in coda rinunciando all’irrazionale. Dietro al fuorviante titolo I vampiri (1957) ha luogo infatti una vicenda che, per quanto venata dai colori dell’incubo, presenta una soluzione razionale, benché paradossale, alla misteriosa catena di morti. La stessa cosa vale per altri esemplari del filone, da Ti aspetterò all’inferno (1960) di Piero Regnoli, con Eva Bartok e Massimo Serato, cupo racconto di una banda di malviventi tormentati dalle apparizioni di un complice creduto morto in una palude, a Un angelo per Satana (1966) di Camillo Mastrocinque, in tutto e per tutto un giallo, anche se ambientato secoli addietro e popolato da superstizioni e presenze fantasmatiche. Allo stesso modo, La lama nel corpo (1965), erroneamente attribuito a Elio Scardamaglia ma diretto da Lionello De Felice, rientra appieno in questa famiglia “di mezzo”, con un assassino (guanto e coltello non mancano) che fa fuori le pazienti di una clinica inglese alla fine dell’800. Altri titoli che possiamo citare sono Il mostro di Venezia (1964) di Dino Tavella, La jena di Londra di Gino Mangini e Delitto allo specchio di Ambrogio Molteni (1965); ma se la discriminante dovesse essere quella del fantastico, lo stesso Boia scarlatto (1965) di Massimo Pupillo, costituirebbe un esemplare bizzarro di serial killer alle prese con la troupe di un fotoromanzo ospite in un castello.
Altrove, le vicende sono puri e semplici gialli alla Agatha Christie, ma l’ambientazione e le modalità del racconto ne fanno dei parenti molto stretti del filone gotico. Si prendano i due film di Angelo Dorigo (che si firma Ray Morrison): A… come assassino (1966) e Assassino senza volto (1968), entrambi girati nel celebre maniero di Balsorano. Dei due il migliore è il primo, tratto da un testo teatrale di Ernesto Gastaldi (che Dorigo, bisogna dire, non fa molto per rendere più “cinematografico”), classico intrigo a sfondo ereditario che vede i discendenti di un ricco parente farsi fuori uno alla volta per accaparrarsi l’intero gruzzolo. Nonostante una conclusione che naufraga nel ridicolo, il film è meno confuso del successivo Assassino senza volto, che soffre, oltre che di un plot modesto, anche di musiche brutte e invadenti. Il film consiste tutto di un lungo flash back che si apre e si chiude in quel di Siena con lunghe riprese del Palio – peraltro, chiaramente eterogenee al girato del film – che paiono attaccate in coda tanto per raggiungere il metraggio necessario. Curiosamente, proprio Assassino senza volto mostra quella che con ogni probabilità è una delle prime soggettive dell’assassino del cinema italiano e almeno per questo merita di essere segnalato. Inevitabile, poi, una seconda contaminazione di segno completamente opposto: quella con la commedia. Si tratta, in fondo, del genere più longevo del nostro cinema e il suo influsso a stemperare il rosso del sangue nel rosa della risata dà vita a un mini filone che scompare quasi subito ma che ha il merito, per così dire, di dare i natali a uno dei maestri del genere. Se infatti i primi nomi di coloro che si cimentano in questo sotto-genere sono quelli di Mario Camerini (Crimen, 1960) e Mario Mattoli (Cadavere per signora, 1964) – ma si pensi anche alla fusione tra intrigo giallo e quel filone a sé costituito dai film di Totò –, è proprio su questo suolo che esordisce Mario Bava, dando il suo primo apporto al genere con La ragazza che sapeva troppo (1962) e contribuendo a tracciare quella linea che, per mezzo dei suoi lavori successivi, porterà dritta al cinema argentiano. La storia è semplice, con una giovane ragazza americana in vacanza a Roma che si trova suo malgrado coinvolta nelle indagini successive a un omicidio occorso davanti ai suoi occhi. È un classico giallo alla Edgar Wallace, come quelli che Alfred Vohrer realizza a spron battuto in Germania negli stessi anni, ma anche le città italiane possono inquietare e Bava lo dimostra, ben prima di Argento, fotografando Roma in uno splendido bianco e nero particolarmente contrastato. Non solo: il regista intuisce già le potenzialità insite nella figura del testimone oculare e, benché non ne approfitti nei film successivi a questo, la sua lezione è senz’altro recepita da Argento & Co (con il tramite di Blow Up). I toni da commedia stemperano la tensione ma finiscono per indebolire il film che, a parte qualche ingenuità e l’inevitabile aspetto datato, costituisce un tentativo sicuramente meglio riuscito di quel Nude si muore realizzato nel 1968 da Antonio Margheriti, peraltro da un progetto dello stesso Bava. L’idea di un killer che miete vittime all’interno di un collegio femminile è destinata a sicuro successo negli anni a venire, ma il regista non ne sfrutta fino in fondo le potenzialità e il film si arena ben presto nel banale, con la consueta figura inquietante di Luciano Pigozzi a fungere da inevitabile sospetto anche a causa di un improbabile riporto. Le grazie delle fanciulle in fiore, tra cui due giovanissime Silvia Dionisio e Malisa Longo agli esordi, non bastano a salvare il film e il macchiettismo e i toni da commedia stridono a contatto con la materia gialla.