Sweet Movie, il “dolce film” di Dušan Makavejev
Un lungometraggio che per i censori italiani fu invece amaro come il tossico
Probabilmente non il film migliore di Dušan Makavejev, di certo il più famoso – o famigerato -, Sweet Movie – Dolcefilm (1974) porta all’estremo la vena provocatoria del cineasta serbo. Makavejev mescola simbolismi e politica, sperimentalismo formale ed erotismo in un collage che ammicca di volta in volta a Godard, Warhol, Brecht. Rispetto al precedente W.R. – Misterije organizma (1971) – straordinaria mescolanza di documentario, fiction, pamphlet ispirata alla vita e ai pensieri di Wilhelm Reich, che portava avanti contemporaneamente sei diversi livelli narrativi – stavolta il regista struttura il film attorno a due storie che si intrecciano. La prima segue le disavventure della vincitrice del concorso ginecologico Miss Cintura di Castità 1984 (Carole Laure), prima sposa di un miliardario (John Vernon) dal fallo d’oro e dalla predilezione per l’urolagnia, poi svezzata al sesso da un nero muscoloso e superdotato, quindi in fuga (in una valigia!) per Parigi dove incontrerà il vero amore (Sami Frey) restandogli avvinghiata in un amplesso troppo focoso. Dopo l’inutile esperienza in una comune viennese dove si praticano l’infantilismo e il culto delle deiezioni corporali come sfogo terapeutico, accetta di fare il bagno nuda nella cioccolata per uno spot pubblicitario, morendo soffocata. La seconda storia vede un marinaio del Potëmkin (Pierre Clementi) imbarcarsi sulla Survival, una chiatta che risale la Senna addobbata con la testa di Marx sulla prua; ma il capitano (Anna Prucnal), che ha riempito la stiva di zucchero per togliersi di bocca l’“amaro sapore” della rivoluzione, è una maniaca omicida che seduce e ammazza tre bambini prima di fare lo stesso con il marinaio, pugnalato a morte in mezzo a un mare di zucchero.
Al di là della condanna delle ideologie capitalista e socialista, con Sweet Movie il cineasta serbo accosta momenti erotici (la bellissima Carole Laure nuda e completamente ricoperta di cioccolato) e politica, invenzioni visive (la gigantesca bottiglia di latte in cui viene rinchiusa Carole Laure, il testone di Marx che troneggia sulla barca che attraversa Parigi) e inserti documentaristici (immagini delle fosse comuni di Katyn, che fanno il paio con quelle degli esperimenti medici nazisti e delle terapie elettroshock mostrate in W.R.). Il legame col Situazionismo e con gli appartenenti al Movimento Panico (suggellato da un cammeo di Roland Topor, nel ruolo di un medico) è palese, e la forma è anarchica, slegata da costrizioni narrative e messaggi edificanti. Ma le trovate più divertenti ripetono idee già spese nei lavori precedenti (il nero che flette i muscoli ricorda il mitico acrobata Aleksic di Verginità indifesa, il capolavoro del regista), e Makavejev è meno lucido nell’articolare il discorso, lasciandosi spesso prendere la mano dalle proprie ossessioni ed esagerando con i simbolismi: ogni inquadratura, ogni oggetto di scena si presta a una doppia lettura; l’effetto è caotico e di saturazione. Ma in Sweet Movie c’è aria di grande libertà, a conferma che un certo cinema d’autore era un paio di passi avanti a quello exploitation quando si trattava di esplorare i confini del mostrabile: ai limiti dell’hard (la scena in cui Carole Laure struscia il viso contro un pene floscio), con genitali al vento e una leggerezza forse irresponsabile nel tirare il bilancio di un intero secolo attraverso l’equazione sesso uguale politica.
Sweet Movie è anche un attacco frontale contro un cinema ormai diventato “una gigantesca macchina per modellare la libido sociale” (Felix Guattari): chi si sognerebbe, oggi, di inscenare un episodio di pedofilia come quello che vede la Prucnal spogliarsi e sedurre dei ragazzini per poi ucciderli? O di ospitare, come fa Makavejev, le performance della Therapie Komune (definita “La voie lactée” nei titoli di coda, con omaggio buñueliano) dell’Azionista viennese Otto Muehl – che peraltro prenderà le distanze dal film, definendolo «completamente kitsch» -, in un’incredibile sequenza in cui Muehl, Otmar Bauer, Marpessa Dawn e altri mangiano, vomitano, si urinano addosso, defecano ed eseguono rituali terapeutici di liberazione del corpo? In Makavejev, a differenza che in Pasolini e in Cavallone, la scatologia è ancora sacca di resistenza alla mercificazione imperante, rivendicazione di una diversità che è sinonimo di libertà.
Al festival di Cannes, dove il film è presentato, pubblico e critica si dividono più o meno equamente tra scandalo e lodi. Sweet Movie arriva in Italia grazie alla Stefano Film e alla P.A.T. Produzioni Artistiche Telecinematografiche S.r.l., che presentano il film in revisione in data 5 novembre 1974, col sottotitolo Dolcefilm. La traduzione e i dialoghi sono curati da Pier Paolo Pasolini e Dacia Maraini, «mediatori la cui notorietà può risultare utile anche in caso di traversie giudiziarie», scrive su La Stampa Lietta Tornabuoni: profezia destinata ad avverarsi. Dal canto suo, Makavejev non è particolarmente soddisfatto della versione italiana: «peccato che […] abbiamo dovuto aggiungere cinque cartelli esplicativi, secondo me inutili. Il mio simbolismo è chiaro e semplice, ma lo spettatore vuole essere sicuro di capire tutto». La copia ha una lunghezza di 2684 metri (circa 97’50”). La descrizione del soggetto è molto accurata nello specificare le qualità dell’opera, definita «una satira dei due sistemi di vita predominanti oggi nel mondo: quello comunista e quello capitalista. Le ingenue illusioni del primo, il dilagante consumismo del secondo sono espressi in forma simbolica e dissacratoria», procedendo a svolgere i simboli messi in scena da Makavejev nei due episodi che compongono il film. Indice dell’attenzione, da parte del distributore, a far sì che la commissione recepisca il contesto e il significato della pellicola, incluse le scene più scabrose, come quella cui prendono parte i membri della comune di Muehl, che «si sforzano di superare i propri drammi individuali mediante l’esasperazione dei problemi fisiologici».
La IV sezione della commissione di I grado, riunitasi il 12 novembre, richiede alcuni tagli, per un totale di 38 metri (1’23” ca), e precisamente: 1) Rapporto sessuale tra il marinaio e Anna nel battello, nelle parti culminanti e più realistiche. 2) Rapporto sessuale tra il cantante e la moglie del miliardario, da quando vengono portati nella cucina del ristorante (solo il distacco della coppia). 3) La moglie del miliardario che bacia con insistenza il pene di uno dei convitati. 4) Tentativo di seduzione di Anna nei confronti del bambino (Una parte). In seguito ai tagli, la commissione concede il nulla osta con divieto ai minori di 18 anni «per le continue scene erotiche, i nudi di uomini e donne, le battute e i gesti volgari, nonché le scene indecenti che, pur senza offendere il pudore, possono turbare la particolare sensibilità dei predetti minori», con d.m. del 18 novembre. La ditta distributrice rinuncia all’appello. Il film, com’è prevedibile, fa subito scandalo. In un’intervista Makavejev mette le mani avanti: «Sequestri e censure sono sempre politici, e il sesso è politica più di qualunque altro fatto politico» dichiara alla Tornabuoni, la quale lo descrive come «un quarantenne grassoccio e cordiale, calvo e ciarliero […] molto portato alla sentenza», e, alle dichiarazioni del regista («Sul pubblico il mio film ha un effetto simile a un ricostituente generale dell’organismo») ribatte «non proprio: le scene in cui gli attori si spiaccicano uova nei capelli, si sputano a vicenda il cibo addosso, affondano la faccia nei piatti colmi, si spalmano di pomodori, si sporcano di ragù o espellono tutto da ogni praticabile orifizio, hanno piuttosto provocato negli spettatori nausea, repulsione, proteste». Il giorno successivo, comunque, il quotidiano esce con un altro articolo (di Adele Gallotti) che titola “Dolce film” per il sequestro – Senza limiti le descrizioni del regista slavo. «Un film che chi aveva visto a Cannes non credeva certo avrebbe potuto passare la nostra censura» scrive l’articolista. «Invece ce l’ha fatta. Anche se nella commissione c’erano molte donne, ma pare che proprio loro lo abbiano appoggiato dopo aver chiesto quattro piccoli tagli. Certo quando questo saggio cinematografico sulla sensualità arriverà a Catanzaro, il solito procuratore non mancherà di levare tuoni e fulmini».
Non c’è bisogno di scendere in Calabria. Il 18 gennaio 1975 Sweet Movie – proiettato al cinema Civico – viene sequestrato dalla Procura di La Spezia. Il dissequestro avviene il 7 febbraio, in attesa della sentenza del Tribunale di Milano e previo taglio di alcune scene, così indicate nella comunicazione della Questura al Ministero: 1) scena del fallo d’oro (1° sequenza: 45 fotogrammi; 3° sequenza: 121 fotogrammi); 2) scena del protagonista che orina nel fiume, fatta eccezione dell’inizio e della fine della stessa (1° sequenza: 98 fotogrammi; 2° sequenza: 232 fotogrammi); 3) scena della seduzione dei bambini: a) ripresa della vulva in primo piano: 68 fotogrammi; b) protagonista che appoggia il piede sulla poltrona in presenza del bambino e si slaccia la prima scarpa: 322 fotogrammi; c) bambino che accarezza la protagonista e primo piano della vulva: 136 e 114 fotogrammi; protagonista che accarezza col piede il volto del bambino: 34 fotogrammi; d) protagonista che abbraccia il bambino: 140 e 110 fotogrammi; 4) scena della “Comune di Vienna”: a) astrazione dai pantaloni e sistemazione sul tavolo di un insaccato e primo taglio dello stesso: 500 e 282 fotogrammi; b) protagonista femminile che estrae il pene di uno dei presenti, lo accarezza e se lo accosta al viso, tranne l’ultima sequenza in cui lo tiene accostato al viso con una mano che praticamente lo nasconde: 500 e 200 fotogrammi; c) uomo che orina sul tavolo: 218 fotogrammi; d) sequenza della defecazione di due uomini accovacciati sul tavolo: 132 fotogrammi.
Commentando il sequestro, Leo Pestelli scrive che la notizia «ha pur qualcosa di stupefacente, in quanto testimonianza d’un mondo ormai remoto. In altri termini colpisce l’arcaicità del provvedimento, quale soprattutto traspare dalla sua motivazione, che ancora una volta, dopo tante infelici esperienze, dopo tanti sequestri immancabilmente seguiti da dissequestri, si arroga di dirimere, in questa e quella sequenza, “arte” e “oscenità”. Non sarebbe l’ora di adeguarsi, invece che a questi due poli, più o meno sempre difficili da accertare, al concetto più largo e più propriamente cinematografico di “significazione”? Noi siamo persino disposti ad ammettere che arte in Sweet Movie non si trovi: ma non per questo concederemmo che il suo contenuto sia in tutto o in parte osceno nel senso circoscritto e legalitario della parola. Quel film, espressione tumultuaria di un genuino talento di cineasta […] ha una sua struttura e quindi una sua onestà: sotto le fumisterie e gli scandali persegue un fine ideologico che, per quanto tortuoso, approda a un significato, a una visione del mondo. Che nella sua tensione cadano molte cose di cattivo gusto, eccessi ingiustificati, insistenze fastidiose, non vuol dire che si abbia a intervenire su tutta l’opera, così come si dovrebbe fare (e invece non si fa) rispetto a certi prodotti pornografici combinati a freddo e sine autore, la cui superficialità è scambiata per innocenza. Eppure, continuando così, si fa proprio il gioco della oscenità commercializzata, risultando vane le tante fatiche critiche per imprimere, presso le autorità, il concetto e il rispetto del film d’autore. E diciamo così perché il pubblico […] queste cose le ha già capite […] e insomma si dimostra molto più maturo dei suoi censori. E dopo un provvedimento di sequestro aspetta filosoficamente il provvedimento contrario, cioè che la legge, eseguito un affannoso aggiustamento mentale, si adegui al passo del tempo (ingrato, ne cinveniamo), per poi perderlo da capo alla prima occasione». Il che puntualmente avviene. Il Tribunale di Milano reintegra i tagli ritenendo che le scene incriminate, «anatomiche, fisiologiche», non turbino sessualmente lo spettatore medio e decide la «trasformazione dell’imputazione da oscenità in offesa della pubblica decenza». In alcuni paesi (Svizzera, Sud Africa, Inghilterra, Canada anglofono) a Makavejev va decisamente peggio che in Italia, e Sweet Movie viene addirittura bandito. Per sette anni nessuno gli dà i soldi per un nuovo progetto, e i lungometraggi successivi (Montenegro Tango – Perle e porci, 1981; Coca Cola Kid, 1985; Il gorilla fa il bagno a mezzogiorno, 1993) conservano solo a sprazzi la forza e l’ispirazione dei primi film.