Il lesbo-thriller
La componente saffica risulta dominante nel giallo all’italiana degli anni Sessanta e Settanta.
Anche la linea tematica del lesbismo serpeggia all’interno del giallo italiano anni Settanta insinuandosi come eredità del precedente decennio, quando l’omosessualità femminile era divenuta un oggetto cinematografico d’elezione. A fronte di classici, dal tenore erotico-drammatico, come Les biches di Claude Chabrol (1968) – coprodotto con l’Italia – Le salamandre di Alberto Cavallone, L’isola delle svedesi, di Silvio Amadio o il meno noto Le altre di Renzo Maietto (tutti del 1969), anche il thriller sorgivo della fine anni Sessanta, soprattutto quello di Umberto Lenzi, si appropriò dell’argomento saffico per condirne e insaporirne i plot (fosse il rapporto maturo tra Erika Blanc e Carrol Baker in Così dolce… così perversa o i giocherellamenti sadomaso di Ornella Muti e Irene Papas in Un posto ideale per uccidere). Con “lesbo-thriller” si intende però qualcosa di più della semplice presenza accessoria in sceneggiatura di donne “diverse” – perché in tal caso l’elenco dovrebbe comprendere la quasi totalità dei gialli all’italiana: sotto questa etichetta vogliamo invece catalogare i film nei quali il tema degli amori “particolari” – come li si definiva un tempo – è parte integrante della vicenda e spesso e volentieri, per via del forte moralismo insito nel genere, aduso a dipingere qualunque tipo di “diversità” come una depravazione, rappresenta il movente elettivo di crimini e omicidi. Lucio Fulci è stato tra i primi, insieme e più di Lenzi, a introdurre il tema lesbico nel giallo all’italiana: con il sottile gioco seduttivo dell’androgina Elsa Martinelli nei confronti di Marisa Mell in Una sull’altra, come si ricorderà; ma anche con il soggetto di A doppia faccia, di Riccardo Freda – il titolo francese Liz et Helen è però più evocativo –, film a torto poco nominato dai frediani e stimato ancora meno, che si regge sulle delittuose macchinazioni di una lesbica (Annabella Incontrera, una “sicurezza” per parti simili) fattasi passare per il fantasma della sua amante morta (Margaret Lee) onde incastrare il marito di quest’ultima (Klaus Kinski). Ma il vero corifeo del thriller saffico degli anni Settanta è quello firmato da Lucio Fulci, ossìa Una lucertola con la pelle di donna (1971).
L’assunto di partenza dell’inghippo giallo che Fulci mette in scena, presentandoci una donna, Carol (Florinda Bolkan), che in uno dei sogni selvaggi di cui è preda la notte ammazza una vicina di casa lesbica e “depravata” (Anita Strindberg), salvo scoprire che anche nella realtà si è consumato il delitto, tale quale a come lei lo ha sognato, è tanto semplice quanto sorprendente: la scossa e spaurita protagonista ha in realtà ucciso la vittima, della quale era l’amante, celando però a se stessa la responsabilità del crimine dietro il paravento dell’inconscio e riuscendo a convincere anche gli altri – la famiglia, solito nido di vipere, la polizia e persino il suo stordito psicanalista -, della propria innocenza. Fulci si spinge ancora più in là, lasciando alla fin fine irrisolto l’interrogativo se Carol abbia consapevolmente o meno travestito il delitto da sogno, mescolandolo ad altre macabre fantasticherie e creando così una valvola di sfogo alla sua colpa: e la Bolkan che senza parlare si accomoda sulla macchina della polizia suggella questa ambiguità nel migliore dei modi. Lasciando da parte le finezze esegetiche – tante sono le interpretazioni della senso ultimo del plot almeno quanti i testi che trattano di Fulci -, è assai più interessante mettere l’accento sul clima paranoico e straniante che regna nel film, girato in un modo molto moderno e distantissimo dai thriller argentiani, dai quali riprende soltanto un titolo zoonimo (peggiore dell’originale, La gabbia) e la legittimazione ad esasperare sangue e violenza (Fulci, tuttavia, arrivava dagli eccessi visivi di Beatrice Cenci e la poetica dell’effetto grandguignolesco e viscerale già gli apparteneva in toto). Una lucertola con la pelle di donna lascia comunque la sensazione di un thriller difficilmente penetrabile, denso com’è di troppe cose, citazionista (Hitchcock, Polansky) e inventivo nella tecnica (le soggettive complesse di Carol, lo schermo diviso che da adito ai suoi pensieri…), figurativamente ricercato (gli incubi della Bolkan e soprattutto la coreografia del delitto: il vento irreale e gli accesissimi colori a contrasto con le tenebre assolute di quinta) e incurante di ogni logica: questa era la caratteristica dominante del thriller italiano anni Settanta e Fulci, dopo il giallo “meccanico” di Una sull’altra, costruito a regola d’arte e con una sceneggiatura a tenuta stagna, doveva essere molto attratto da un simile modo di raccontare, sciolto dalle pastoie della ragione e favorevole al procedere per associazione di idee, alla creatività, allo sperimentalismo. Interessava invece poco al regista l’aspetto erotico della faccenda, almeno a giudicare dalle sequenze d’amore tra la Strindberg e la Bolkan, che pur mostrando parecchio racchiudono qualcosa di gelido e rarefanno la sensualità.
Da questo punto di vista è assai più stimolante il lesbo-thriller di Silvio Amadio Alla ricerca del piacere (1972) – che conosce anche gli alias italiani Replica di un delitto e Il passo dell’assassino -, una delle cui scene madri consiste proprio nel vellutato incontro tra le lenzuola, scandito al rallentatore e suggestivamente commentato dalle musiche di Teo Usuelli, delle biches Barbara Bouchet e Rosalba Neri. La prima, eroina buona (e bisessuale: il che è strano) della storia, capita nella magione veneziana dello scrittore imbambolato Farley Granger per indagare sulla scomparsa della sua giovane amante (Patrizia Viotti), colà assunta come segretaria e poi sparita nel nulla; mentre la Neri è la solita perfida depravata che condivide con Granger la responsabilità di aver ammazzato la ragazza scomparsa durante un’orgia a base di droga e stupri. Amadio gioca con materiali morbosi a presa rapida (un altro bel “duetto” saffico avviene, tra la Bouchet e la Viotti, sotto l’acqua di una cascata), coadiuvato da interpreti femminili che di per sé sole tengono su il film (il progetto iniziale, tra l’altro, prevedeva l’affiancamento alla Bouchet di Edwige Fenech, che dovette però rinunciare perché incinta) e conduce dignitosamente a termine un eros-giallo easy watching, con validi momenti di tensione, come il tentato omicidio a fucilate della protagonista durante una battuta di caccia in palude. E Venezia, almeno stavolta, non è uno sfondo troppo invasivo della vicenda. Amadio – personaggio stravagante, poi convertitosi al misticismo, gettando il cinema e quant’altro alle ortiche – si trastullò nel 1972 con una seconda storia gialla infiltrata di lesbismo, dal titolo “animalista”, quanto incongruo: Il sorriso della iena. Gli elementi di partenza, peraltro, non si discostano troppo dal precedente film: la morte enigmatica di una miliardaria, la figlia diciottenne appena uscita dal collegio che indaga (qui la giovanissima Jenny Tamburi con il nome d’arte Luciana Della Robbia), il patrigno, che amministra temporaneamente i beni, e la sua amante libertini e criminali (Silvano Tranquilli e Rosalba Neri again). Ovviamente niente è quel che sembra e la liliale Tamburi, oltre a non essere figlia dell’uccisa, si rivela un gran pezzo di carogna che insieme al fidanzato ha concertato un piano per fregarsi l’eredità e non s’è fatta scrupolo, a tal fine, di sedurre tutto il parentado. Giusto qualche (lieve) contatto erotico tra la Neri e la Tamburi, in particolare durante una seduta di fotografia, cela interesse, perché siamo altrimenti di fronte a un prodotto fiacco, verboso e monocorde, senza praticamente colpi di scena che non siano lo sfracellarsi della falsa infanta e del suo ganzo contro la macchina in arrivo della vera figlia della miliardaria – un finale vecchio quanto Orgasmo di Lenzi.
Perché quelle strane gocce di sangue sul corpo di Jennifer? ha un titolo ad effetto che si vuole derivato da un verso di Ossian (ma provate a cercarlo…) e una sceneggiatura di Ernesto Gastaldi dove succedono un mucchio di cose e fitta di personaggi, sul genere delle architetture complesse dei suoi thriller “martiniani”, ai quali viene spontaneo assimilarlo. In questo ha il suo peso anche la presenza della Fenech, che con la protagonista dello Strano vizio della signora Wardh condivide, tra l’altro, il destino di venire perseguitata da un amore del passato con gusti sessuali poco ordinari: là il sadomaso e qui le partouzes. Il pericolo arriva però da altrove, nella forma di un maniaco nerovestito che comincia a far fuori a colpi di rasoio le avvenenti inquiline di un enorme palazzo, dove si sono da poco trasferite ad abitare donna Edwige e l’amica Paola Quattrini. La polizia brancola nel buio ma gli spettatori più accorti si insospettiscono immediatamente quando sulla scena appare Annabella Incontrera, che gioca il ruolo di una lesbica, come è facile immaginare, e che si rivela il movente ultimo dei delitti, in quanto il vecchio padre George Rigaud ammazza ogni donna che suppone gli abbia “corrotto” la figliola. Al di là dell’avere suggerito a De Palma una scena di omicidio in ascensore di Dressed to Kill e a Dario Argento un accoltellamento tra la folla in Tenebre – ma con questi rimandi a distanza bisognerebbe andarci sempre cauti –, Jennifer si gode soprattutto come un compendio dei luoghi comuni del giallo argentiano da un lato (il maniaco con annessi e connessi, trauma compreso) e dell’eros-thriller marchiato Martino dall’altro; anche se di sesso, e tantomeno lesbico, ce n’è veramente poco. E giusto per non farsi mancare niente Gastaldi ci aggiunge anche il personaggio di un ragazzo mostruoso, un “Quasimodo” che la madre tiene segregato e che per un po’ confonde le idee e depista i sospetti. Il rapporto omoerotico e incestuoso tra una fotomodella e la sorella deceduta durante un aborto clandestino sono il substrato del cruento e piccante Nude per l’assassino, diretto nel 1975 da Andrea Bianchi in un raro momento d’illuminazione, avvalendosi di una Fenech col capello corto e particolarmente sporcacciona come interprete di chiamata. La sceneggiatura di Massimo Felisatti abbonda anche qui degli stilemi del genere, a partire dall’agenzia fotografica, sentina di vizio, intorno a cui ruota una ridda di feroci delitti compiuti da una figura nerovestita, che al termine si scoprirà essere la ragazza “diversa” di cui sopra, che ammazza per vendicare la sorella e che farà la fine del topo piombando giù da una rampa di scale. Secondo gli esperti, il regista Kenneth Hughes nel suo Il killer della notte avrebbe omaggiato, nel look del maniaco, Nude per l’assassino: in realtà le più sconcertanti analogie con il film di Bianchi si rilevano in Trauma di Dario Argento, dove c’è un’assassina divenuta tale per un parto finito in tragedia, e alla quale – proprio ciò che avviene in questo thriller – il rumore dell’acqua corrente scatena crisi di follia omicida. Edwige è poco rilevata nonostante il primo ruolo ma ardisce abbastanza (controvoglia cede anche all’amore sodomitico), come Femi Benussi che lesbica con Amanda (alias Giuliana Cecchini) poco prima di venire sgozzata a mo’ di capretto e come Erna Schurer, che fa sbavare, per gioco, un povero impotente. A Solvi Stubing resta invece di interpretare una serial killer convincente e alla fin fine più simpatica di tutti gli altri personaggi.
Gli sceneggiatori di L’assassino… è al telefono, di Alberto De Martino, puntavano invece più sulla tensione che sull’effetto, non colpendo se non di striscio il bersaglio e risolvendo il plot in eccessive lungaggini, riscattate solo in parte dalla regia di De Martino, dalla fotografia di Aristide Massaccesi e dalla bella musica onnipresente di Stelvio Cipriani. La protagonista, Anne Heywood, era nota per un caposaldo del lesbismo su pellicola come The Fox e non è escluso che si sia pensato a lei proprio per questo, essendo il suo personaggio vittima dell’amore morboso della sorella del marito, ucciso per sbaglio da un losco figuro che agiva su commissione di quest’ultima. L’intreccio ha una maggiore complicazione, fino a risultare in talune parti persino oscuro, sospeso com’è tra i fantasmi del passato e il presente che affligge l’ex “volpe” in preda ad amnesie; il che, unitamente ad una diffusa castità (giusto un bacio gay tra la protagonista e Rossella Falck, che la concupisce) non fa di questo giallo qualcosa di eccelso; però De Martino dirige bene la Heywood e l’altra gloria hollywoodiana del cast, Telly Savalas, e inserisce citazioni colte da Hitchkock che fa piacere riconoscere. Comunque, in fatto di plot ingarbugliati Il fiore dai petali d’acciaio, diretto nel 1973 da Gianfranco Piccioli, non si batte: la sceneggiatura del regista e di Gianni Martucci immagina, infatti, il medico Gianni Garko preso in una terribile morsa, tra il delitto della moglie, avvenuto – lui crede – per una fatalità durante un litigio e l’intrigo ordito dall’amante di lui, Paola Senatore, responsabile ultima dell’omicidio, in combutta con l’amica “particolare” Pilar Velasquez – a sua volta assistente e compagna di letto del protagonista. Come se non bastasse, c’è di mezzo anche Carrol Baker, pure lei lesbica e legata morbosamente alla Senatore, sua sorellastra, della cui misteriosa sparizione è convinta sia responsabile il povero Garko… In questo groviglio – dal quale più di un recensore è stato tratto in inganno – lo charme delle attrici è la cosa più stimolante che emerge, insieme a qualche sequenza ben riuscita, come quella in cui Garko fa a pezzi il cadavere della moglie o la trovata inedita, nel finale, del sesso subacqueo tra la Senatore e la Velasquez, convinte di averla fatta franca e ancora ignare che il commissario Ivano Staccioli si appresta invece ad inchiodarle. Un giallo con al centro due donne criminali in odore di saffismo che ingannano, ricattano e alla fine ammazzano il povero fidanzato di una di esse, è anche Istantanea per un delitto, del 1975, film poco visto e dalla storia intricata: la regia è infatti attribuita ad Arthur Saxon (ossia Ezio Alovisi) e a Mario Imperoli, ma è tutt’altro che chiaro quanto e come i due abbiano collaborato sul set. La “bianca” Ostuni è inedita come ambientazione di un thriller e non era malvagia l’idea di un gioco erotico davanti all’autoscatto che culmina (apparentemente) in un omicidio: ma lo script sviluppa le conseguenze all’insegna soltanto di noia e lungaggini, senza nemmeno sfruttare a dovere le indubbie attrattive della dolce Monica Stroebel e delle “diaboliche” Lorenza Guerrieri ed Erna Schurer. Una volta tanto le lesbiche non sono carnefici ma vittime nell’argentiano Il vizio ha le calze nere, dove un maniaco neroguantato che ha tutta l’aria di essere una donna, semina morte in quel di Ascoli Piceno nell’entourage di alcune signore dell’alta borghesia inclini ai piaceri “contronatura”, tra loro e con delle servotte. Il film, del 1975, concepito, prodotto (con esiti economici disastrosi) e diretto dal poliedrico caratterista siciliano Tano Cimarosa, ha l’appeal di certe sortite sconclusionate e ai confini con l’amatorialità, nonostante il cast non lesini sui nomi di rilievo per l’epoca: Dagmar Lassander “deviata” e vittima, John Richardson che investiga (occorre dire che Cimarosa è il suo aiuto e che ciò da agio a continui siparietti comici?), Ninetto Davoli come mantenuto e le polpose Magda Konopka e Daniela Giordano, destinate a soccombere sotto i colpi di un rasoio. Fino a Giacomo Rossi Stuart, nelle vesti del killer seriale (e in calze a rete) che colpisce perché geloso della moglie sporcacciona. C’è di buono che qui il sangue e il sesso sono mostrati senza remore, anche se questo non risulterà a chi guardi le correnti versioni in videocassetta del film, terribilmente accorciate. Renato Polselli ha sempre mostrato un debole per gli intrighi thriller-orrorifici a marcata componente lesbo: sia nei film da lui stesso diretti (La verità secondo Satana) sia in quelli sceneggiati per altri (Questa libertà… di avere le ali bagnate, di Alessandro Santini). Giochi erotici di una famiglia perbene, di Alessandro Degli Espinosa, è uno dei suoi “parti” di questo genere meno conosciuti, che in pieno 1975 resuscita il giallo ereditario mettendoci di mezzo un professore moralista e antidivorzista (Donald O’Brien), la moglie che lo cornifica con un’altra travestita da uomo, un uxoricidio per avvelenamento e una prostituta che il vedovo porta a vivere in casa propria, insieme a una giovane e infida nipote. La soluzione è – prevedibilmente – a scatole cinesi, scoprendosi, prima, che la moglie non è morta e complotta con la prostituta per far fuori O’Brian (che però ammazza l’una e l’altra, stavolta per davvero) e, poi, che a reggere le fila di tutto è la nipotina; la quale, assassinato lo zio e pregustando già l’eredità, finisce – come da copione – sotto la solita auto pirata…