La lunga sfida
1968
La lunga sfida è un film del 1968, diretto da Nino Zanchin.
Oggetto inclassificabile, e non solo misterioso, del cinema italiano a cavallo del ‘68. Mentre si preparava la contestazione, c’’era chi poteva permettersi ancora il lusso di girare un film di pura azione, senza la minima concessione a intellettualismi e cifre stilistiche. Con l’effetto paradossale, rivedendolo a distanza di quarant’anni, di trovarsi di fronte a un film politicamente scorretto, espressione che al tempo non voleva dire nulla, ma che ben si presta a qualificare pellicole oggi irrealizzabili. Non tanto per la già conclamata morte dei generi, quanto per l’irriverente posizione assunta dal regista (e dai suoi sceneggiatori). Memore degli insegnamenti del suo maestro, Pietro Germi (di cui era stato aiuto regista in Il ferroviere, L’uomo di paglia e Un maledetto imbroglio), Robert Andrews, alias Nino Zanchin, inscena una vorticosa lotta all’ultimo colpo fra due bande di contrabbandieri di droga e come in L’uomo della legge emerge a sorpresa il ritratto di un criminale dal cuore d’oro. In un Marocco non meno aspro e polveroso della Sicilia rappresentata da Germi, l’europeo Paynes (uno straordinario Luigi Pistilli) si scontra contro il reietto locale Blal (Charaibi Ben Bensalem), tentando con ogni mezzo di far uscire dai confini del paese 100 chili di hascisc.
Blal, che non solo gestisce il traffico di droga, ma fissa il prezzo sull’intero mercato interno, si oppone utilizzando i medesimi metodi di Paynes. Una lunga sfida, come recita il titolo, in mezzo alla quale si viene a trovare («tra l’incudine e il martello») un ingegnere dell’Unione forestale, Bruno Pasquet (Giorgio Ardisson), che ha il privilegio con la sua jeep di passare i posti di blocco senza essere perquisito dalla polizia. Paynes per convincerlo a trasportare la droga gli rapisce il figlio Eric (Marco Stefanelli, un futuro da stuntman), e il film che parte come una pellicola di spionaggio, con tanto di scena iniziale a Londra, nella miglior tradizione del genere, si trasforma in un lacrime-movie potenziale. Ma per fortuna Blal, come il Turi Passalacqua interpretato da Charles Vanel in L’uomo della legge, risolve la situazione imponendo la sua morale e le sue regole. Finale, comunque, commovente, con l’abbraccio fra padre e figlio sulle note coinvolgenti di Marcello Giombini in una delle sue colonne sonore più apprezzabili.
Colpi di scena, omicidi, scambi di persona: la sceneggiatura di Di Leo, Cavallone e dello stesso Zanchin non si fa mancare nulla tenendo gli spettatori (pochi per la verità, all’epoca) con il fiato sospeso. Di Leo fa le prove per il suo cinema d’azione a venire, giocando sulle gradazioni fra bene e male e riproponendo certi cliché del western all’italiana, allora in voga. Meno individuabile l’apporto di Cavallone, se non per l’esotismo (di erotismo nemmeno l’ombra) in cui è avvolta l’intera vicenda, mentre Zanchin, grande aiuto-regista del cinema italiano (da Bragaglia a Sergio Corbucci, da Comencini a Dassin, da Tessari a Vancini, da Fulci a Sollima) esordisce alla regia dimostrando grande mestiere e soprattutto la giusta sensibilità per coniugare il cinismo dell’intera vicenda con la delicatezza necessaria per rappresentare il mondo dell’infanzia. Purtroppo anche i suoi successivi film, Rebus e I figli chiedono perché, si candidano per un posto fra i Misteri d’talia.