Un gioco per Eveline
1971
Un gioco per Eveline è un film del 1971 diretto da Marcello Avallone.
Il titolo, Un gioco per Eveline, viene spesso riportato inesatto, con la “y” nel nome femminile al posto della “i”, consumando un errore tuttavia legittimato in corso d’opera da una trama che gioca proprio sulla duplice identità di una bambina così chiamata. In seguito a un incidente d’auto che li costringerà a chiedere ospitalità nella villa più vicina, la giovane coppia di sposi Pierre e Natalie (Erna Schurer) si lascerà irretire in un ambiguo e morboso ménage à quatre con i padroni di casa, Miou (Adriana Bogdan) e Philippe (Marco Guglielmi, anche sceneggiatore del film), individui dietro i cui comportamenti sembra nascondersi qualcosa di spaventoso. Da Avallone, di cui si conoscevano bene gli horror di fine anni ’80 (Maya e Spettri), ma di cui si ignora a tutt’oggi il suo esordio ufficiale, L’altra faccia del peccato, un mondo-movie del ‘69 sulle usanze sessuali dall’Africa alla Scandinavia, non ci aspettavamo certo questo piccolo gioiellino psyco-horror, che per tutta una buona metà si nasconde dietro la scorza del giallo d’alta società tipico di quegli anni. Eppure, anche se i personaggi sono gli stessi dei Lenzi-movies del periodo d’oro – due coppie giovani, belle e disponibili allo scambio – e gli ambienti ricordano molto quelli di un thriller baviano come 5 bambole – la solita villa in riva al mare dove non succede mai niente e tutti passano il tempo a giocare a scacchi o a fare il bagno o a camminare nel bosco attiguo – la posta in gioco è di tutt’altro tipo, legata piuttosto all’insorgere graduale di un elemento sovrannaturale.
Di erotico, invece, c’è ben poco, se non la bellezza disarmante della Bogdan, attrice di origini rumene ma d’adozione belga, qui alla sua unica incursione italiana. È lei ad ammaliare con la sua fragilità il giovane Pierre (un insipido Wolfgang Hillinger), coinvolgendolo in una spirale da incubo che lo farà vacillare, mentre i contorni della realtà circostante si faranno sempre più sfocati. Tutto ruota intorno al fatto se Eveline, la figlioletta di Miou e Philippe, sia ancora viva, come crede la donna, oppure no, come invece sostiene il marito. E il pregio migliore del film sta proprio nel non disambiguare mai questa o altre suggestioni, nel lasciare aperta ogni possibilità, non dichiarando mai apertamente se le ossessioni della donna, che per contagio arrivano in visione anche a Pierre, sono frutto di una macchinazione ordita dal consorte, accadimenti spettrali, o più semplicemente un sogno all’interno del film. Fatto sta che i conti non tornano, e da un certo punto in poi l’architettura del plot non si preoccupa neanche più di tanto di farli tornare, mentre tensioni e figure finiscono per accumularsi più per contagio biologico delle une sulle altre che non per avanzamento logico vero e proprio (si veda l’ambiguità del doppio ruolo interpretato da Rita Calderoni, con effetti assolutamente devastanti per la linearità dell’intreccio).
Da questo punto di vista, Un gioco per Eveline è un’operazione squisitamente psicanalitica, dove il phantasme dell’inconscio – il rimosso che ritorna – coincide letteralmente col fantasma della bambina (forse) morta e violentemente rimpianta dalla madre, le cui apparizioni sempre più frequenti – in una di queste Eveline gioca persino con l’immancabile palla bianca… cosa ci ricorda? – destano più di qualche soprassalto nella corteccia emotiva dello spettatore. Non male la frase di Samuel Beckett come sigillo finale prima dei titoli di coda: “In questa confusione, da qualche parte, il pensiero si accanisce, anche esso lontano dal punto giusto, e a sua volta mi cerca dove non ci sono, non sa placarsi…”.