Quella piccola differenza
1969
Quella piccola differenza è un film del 1969, diretto da Duccio Tessari.
Si tratta del film che Pino Caruso – protagonista – si vergognava come un ladro di avere fatto. Quello che avrebbe bruciato, se avesse potuto – parole sue – e non potendolo, si limitò quindi ad espungerlo dalla propria filmografia ufficiale. La ragione non si capisce. È vaga: non avrebbe nulla a che vedere con il contenuto dell’opera di Duccio Tessari che qualcuno, in tempi vetusti e a prezzo di un bello sforzo, avrebbe potuto trovare scabroso: un uomo al quale un giorno i medici dicono che nel suo corpo è in atto un mutamento, al termine del quale egli si ritroverà ad essere donna. Non il contenuto sarebbe la causa di questa damnatio memoriae carusiana, quanto piuttosto la performance in sé dell’attore, che non lo soddisfa. Il che vuol dire tutto e non vuol dire niente. Comunque… La sorte deve avere ascoltato Caruso e il dio che regola il destino della visibilità dei film ha esaudito i suoi voti, seppellendo Quella piccola differenza (in principio Foemina) nella terra sconsacrata degli invisibili. Ma almeno una copia si è salvata grazie alla Scuola nazionale di Cinema. Dove la prima cosa che colpisce è un’inquadratura-firma di Tessari, che riprende Caruso con una giovane spasimante, Ely Galleani – piuttosto insapore qui – mentre sono in macchina, dal basso, da dietro la cloche, con le gambe di lei in esaltazione: stessa identica prospettiva delle riprese di Delon in auto, sui titoli di testa di Tony Arzenta. Chapeau a Tessari: due volte sono cose volute, non casuali. Cominciamo bene.
Il soggetto è quello che si diceva prima, scritto da Sergio Corbucci, chissà se per farlo lui o già con l’idea di porgerlo ad altri. L’altro, nella persona di Tessari, parrebbe il più indicato per approcciare un tema del genere: humour, pochade, grottesco, risate di fiele. Fatto sta che Tessari piglia una via più sottile e più rischiosa e fa un film che a metà strada o forse anche prima esce dal binario ilare e viaggia per il filosofico-esistenzialista. Sarà lì che Caruso che si è sentito poco adeguato? Lui, il metamorfosando da maschio a femmina, ha una moglie – Victoria Zinny –, un’amante – Juliette Meynel –, una fidanzatina nella summenzionata, banalotta, Galleani, e un figlio di otto anni, che dovrebbe aderire all’idea del masculo incarnata dal padre. Quando a un protagonista così, dicono che a breve diventerà donna, il mondo e il sistema teoretico intero che lo sorregge, gli crollano addosso. Cerca di reagire, di obliare la catastrofe imminente, ma fa cilecca prima con l’amante poi con la moglie. A un certo punto si trova solo e disperato. E medita e mette in pratica un tentativo di suicidio. A quel punto, un vecchio monaco gli porge una mano, sia nel senso che gli sfila il nodo scorsoio dal collo, sia nel senso che gli insegna ad avere nei confronti del mondo e delle cose un approccio irenico, all’insegna del lascia correre e goditi le cose, le persone, la vita Que sera sera. Carpe diem. Sii, insomma, molto epicureo.
Il vecchio frate saggio è Enrico Ragusa, che i titoli di testa certificano “per la prima volta sullo schermo a ottant’anni” e che l’occhio clinico riconosce subito come Riziero Santenocito, il padre di Gassman in In nome del popolo italiano, quello con il quale l’infame ingegnere prima giocava a scopetta e poi faceva internare come povero rincoglionito. Nel disegno complessivo, Quella piccola differenza non è un Tessari memorabilissimo, sebbene i tocchi sagaci di regia ci siano e i grandangoli e i fish-eye si sprechino a suggerire – come dicono quelli che parlano bene – lo spaesamento e lo smarrimento gnoseologico del povero protagonista che non è più in grado di capire chi sia, chi non sia, da dove venga e verso dove vada. L’impressione – forse anche dovuta ai colori smorti e slavati della copia CSC – è che si tratti di un film molto più vecchio e polveroso di quello che è, un ’65 o ’66 anziché un 1969/’70 (in lavorazione, per l’esattezza, dal luglio del 1969). Si prese un vm 14, ingiustificabile se non per un certo turbamento che i censori dovettero provare di fronte ad alcune sequenze di spogliarello a ritmo di musica pop con un ventre guizzante – ancorchè bikinato con un due pezzi rosso – che, in effetti, solletica l’immaginazione.