Il cerchio rosso del Samurai
Delon, Melville e la schizofrenia
Ore sei del pomeriggio. Un uomo è sdraiato sul letto di uno spoglio monolocale, mentre volute di fumo che partono dalla sua sigaretta si levano nell’aria. Sullo sfondo, tra due finestre battute dal temporale che sta investendo Parigi, c’è una grossa gabbia di metallo. Dentro la gabbia, un canarino non smette di pigolare. L’uomo, che ha la bellezza algida e lo sguardo distaccato del trentaduenne Alain Delon, si chiama Jef Costello ed è un “tueur à gages”, un sicario assoldato per uccidere il proprietario di un night club. Costello spegne la sigaretta e si alza in piedi, sfiora con un cenno propiziatorio la gabbia del canarino e comincia a prepararsi per la missione. Ogni sua azione è meticolosa e precisa, ogni suo gesto ritagliato con precisione rituale, come i gesti di un samurai. Nessun movimento superfluo, nessuna parola di troppo. Parte così il capolavoro realizzato da Jean-Pierre Melville nel 1967, che in francese si intitola, appunto, Le samouraï. Jef Costello condurrà a termine il suo lavoro in modo impeccabile, ma il destino farà incrociare la sua strada con quella di una testimone, e lui sarà costretto a guardarsi non soltanto dalla polizia, ma dalla stessa organizzazione che l’ha ingaggiato. Anche se la sua trama può apparire simile a quella di molti B-movie a sfondo gangsteristico, Le samouraï segna uno spartiacque nel filone delle crime-story che hanno tra le figure centrali quella del killer solitario a sangue freddo. Prima di Melville, infatti, nessun regista aveva formalizzato in modo così radicale i codici comportamentali del sicario, mutuandone l’iconografia dalle tradizioni western e poliziesca del cinema classico americano.
Tradizioni di cui i referenti più immediati sono, rispettivamente, il nevrotico pistolero Wilson interpretato da Jack Palance in Il cavaliere della valle solitaria (Shane, George Stevens, 1953) e il sicario Raven interpretato da Alan Ladd in Il fuorilegge (This Gun for Hire, Frank Tuttle, 1942), al quale Melville si ispira, oltre che per il look di Costello, anche per i due minuti iniziali del film. Anche Raven possiede un animale, un gatto che accarezza scaramanticamente prima di andare a uccidere, e in cui, come Costello, vede riflessa la propria condizione esistenziale. Parliamo ovviamente della solitudine, che già prima di Costello aveva caratterizzato l’universo degli (anti)eroi melvilliani, a partire dall’ufficiale nazista Werner di Il silenzio del mare (Le silence de la mer, 1947) fino al gangster Gu di Tutte le ore feriscono, l’ultima uccide! (Le deuxième souffle, 1966), ma che, nel caso di Le samouraï, appare per la prima volta sradicata dal contesto storico o sociale in cui il protagonista si muove, trovando la propria ragion d’essere soltanto all’interno della sua mente e nelle sue percezioni. Costello è, infatti, uno psicotico. «Un killer è per definizione uno schizofrenico» afferma il regista nel libro-intervista Il Cinema secondo Melville di Rui Nogueira (Le Mani, 1994). «Prima di scrivere la sceneggiatura, ho letto tutto ciò che ho potuto sulla schizofrenia, sulla solitudine, sul comportamento muto, il ripiegamento in se stessi. […] Per lo schizofrenico, ogni atto è un rituale». Il termine schizofrenia deriva dall’unione delle due parole greche schizo (scindo) e phren (mente). Lo schizofrenico possiede cioè una mente divisa, frammentata.
Non è difficile intuire come mai Melville abbia scritto il soggetto del film pensando ad Alain Delon, l’attore la cui proverbiale ambiguità, insieme alla dote innata di rarefare ogni emozione, ha portato moltissime volte a confrontarsi col tema del doppio e con quello della ricerca (o dell’affermazione) dell’identità personale. Ricerca che spesso può giungere a compimento solo tramite l’omicidio, come avviene in Delitto in pieno sole (Plein Soleil, René Clement, 1960) o in L’assassinio di Trotski (L’assassinat de Trotski, Joseph Losey, 1972), per citare solo i film più significativi di Delon in tal senso. Melville permea dell’ambiguità e della freddezza tipiche del divo francese il senso di estraneità con cui Costello vive il contatto con gli oggetti, e pone dei veri e propri filtri umani nel modo in cui il samurai si relaziona con le altre persone: il maturo professionista Wiener (Michel Boisrond) con cui Costello condivide la ragazza che lo ama (Nathalie Delon), e il sicario biondo (Jacques Leroy), quasi un clone di Costello, elemento di raccordo con l’organizzazione. Tali doppioni, simboli viventi della frammentazione psichica del protagonista, diventano meri strumenti che lui utilizza per i suoi scopi (la costruzione del falso alibi con cui ingannare la polizia, o scoprire l’identità di chi ha ordinato di ucciderlo). Essi possiedono, in altri termini, la stessa, intercambiabile funzionalità delle automobili o dei revolver con cui il samurai porterà a termine il suo rituale di morte.