Fernando Arrabal
Un cavallo pazzo nel paese incantato
Fernando Arrabal dice di sé che quando era piccolo, gli diedero un premio come il ragazzino più intelligente di tutta la Spagna e gli pronosticarono un futuro da genio. Ma Arrabal non voleva diventare un genio, voleva essere un santo, con l’aureola sulla testa, quel cerchio col buco che evoca l’idea di una vagina o di un culo. Arrabal dice di sé che quando inventò “Le Mouvement Panique”, con Topor e Jodorowsky, loro furono come la Triade divina, il Padre, il Figliolo e lo Spirito Santo, e diedero vita a una Quarta Persona, in un atto equiparabile a un titanico orgasmo, a una pantagruelica eiaculazione. Arrabal dice – ancora – di sé, che come Dio ha creato il mondo in sette giorni, anche lui ha fatto sette lungometraggi. Dopodichè si è riposato…
Fernando Arrabal Terán (11 agosto 1932) nasce dal pittore Fernando Arrabal Ruiz e da Carmen Terán González, a Melilla, sulla costa marocchina orientale. Quel padre e quella madre, nella vita di “Fando”, sono le due colonne del tempio, sono Umin e Tumin, Jachin e Boaz. Il padre, nel 1936, all’inizio della Guerra Civile spagnola, rimane fedele alla Repubblica: lo arrestano, lo condannano a morte, ma mutano poi la pena in trent’anni di prigione. Nel 1942 evade e di lui non si saprà mai più nulla. Questa è la prima, essenziale, porta che ci introduce ad Arrabal, il filo nel suo labirinto. Del 1959, quando già Arrabal vive da cinque anni in Francia, è il romanzo d’esordio Baal Babylonia che diverrà il suo film d’esordio come regista, nel 1970, Viva la muerte. Lì e qui è la recherche del tempo perduto col padre, dentro l’orizzonte assolato di un universo caldo, che circonda, avvolge e può farsi carezza o garrota. Il libro forse, ma il film è straordinario. Non così straordinario come J’irai comme un cheval fou, ma straordinario. Per lusso, colore, ricchezza e bellezza delle immagini, che finanche ai punti di terribilità e violenza che raggiungono (e ne raggiungono di apicali), sono gradevoli, piacevoli, seducono. Fando bambino trasfigura la sua sensualissima madre (Núria Espert) colpevole di aver “venduto” il marito, ora come una azzurra Vergine armata di un pugnale tra i denti, ora come una oscura menade che defeca sulla testa del padre torturato, ora come rossa tuffatrice nel sangue fumigante di una vacca appena sgozzata dentro un mattatoio, nella cui carcassa viene poi cucito un tizio: esecuzione reale (in tutto il cinema di Arrabal gli animali si uccidono sul serio, benché lui affermi di amarli, gli animali, soprattutto gli insetti e in particolar modo le coccinelle, il cui rapporto sessuale dura un’intera giornata: sempre in Viva la muerte c’è, comunque, uno scarafaggio tagliato vivo in due con una lametta), per una sequenza che fu copiata/variata subito dagli italiani (Cavallone in Maldoror, Mingozzi in Flavia) e che a distanza di anni ancora ispira (l’ultimo Mojica Marins, Encarnação do Demônio muoverà da lì per il parto di una donna nuda da un suino).
La madre è quindi la seconda essenziale porta per accedere ai “misteri”, edipici ed epici, di Arrabal. Tra la Espert e il figlio è soffusa una corrente erotica insinuante e se mentre lei lo lava finisse per masturbarlo (come sembra stia per o voglia fare) non ci si troverebbe, date le premesse, nulla di strano. Di Andrò come un cavallo pazzo, Arrabal dirà che se avesse potuto lo avrebbe girato volentieri nell’utero di sua madre, ma che siccome lei non era d’accordo, scelse di ambientarlo nel deserto. Viva la muerte è surrealista, certo, ma senza quella sovrabbondanza di fantasia, quella gran copia di virulenza onirica, di “senso”, che sarà propria del Cheval fou. Ciò che di più surreale ha cittadinanza nel film è il disegno di Topor sul quale la mdp va errando e svelando le più assurde atrocità durante i titoli di testa. O la canzoncina onomatopeica senza significato («è la glossolalia, il Carisma, Il dono dello Spirito Santo»), registrata in Danimarca, che farà l’eterno ritorno nell’opera arrabaliana. Come cinema, quanto a tecnica, l’approccio alla settima arte è di un rigore, di una limpidezza adamantina, persino geometrica: i suoi film tutti saranno gabbie elegantissime all’interno delle quali è lecito racchiudere e contemplare il più segreto bene e il più segreto male, cioé To Pan, Il Tutto: ciò che spiega – probabilmente – quel che Arrabal stesso non riesce a spiegarsi, cioé come sia stato possibile che le sue pellicole, quantomeno la maggiore trilogia, abbia potuto diventare popolare e avere addirittura successo.
Il secondo film di Arrabal regista è Andrò come un cavallo pazzo, del 1973, il più bel titolo mai pensato nell’intera storia del cinema: l’alchemico Arrabal conosce bene e si diverte a citare la cabale o à peu près phonetique, teorizzata da Grasset D’Orcet, il vettore magico, l’inforcatura esoterica (e molto dadaista) per mezzo della quale si scoprono le remote associazioni tra le cose valutandone la consonanza o assonanza dei nomi, e con cui l’uomo può intendere il linguaggio degli uccelli allo stesso modo di quello dei cavalli (appunto, cabale: ma niente a che vedere con la kabbala ebraica) “che sono pazzi perché sono puri, quindi non sono affatto pazzi”. Sul manifesto del film, una donna nuda che abbraccia uno scheletro rimanda a uno degli squarci surreali “spinti” che lacerano di continuo il tessuto della narrazione, ri-velando ossia mostrando col nascondere, col velare di nuovo, le complessioni, le connessioni che stanno dietro, oltre, sopra e sotto la realtà. Attenti: poiché non di conoscenza a-logica trattasi, quanto piuttosto di un sapere pre-logico, spontaneo, naturale, vetusto e – di più – millenario, quello che George Shannon, in sospetto di avere ammazzato la madre castratrice/amante/puttana/Madonna Emmanuelle Riva, va a cercare nel deserto e che trova nella personcina minuta del pigmeo Marvel, interpretato dall’attore feticcio di Arrabal, Hachemi Marzouk, uno scultore – “feticcio” perché per Fando quello è il suo doppio sulla terra. Arrabal decise di prendere l’attore americano «per trasformare un uomo che non si sentiva capace di affrontare quel ruolo». C’è riuscito «scoprendo la parte nascosta del suo sesso e della sua anima».
J’irai… è empedocleo, sapienziale, epico e titanico nell’architettura, che sta all’opposto dell’hic et nunc di Viva la muerte. L’autobiografia si fa cosmogonia e palingenesi nell’incredibile explicit del film, dove il nano-dio divora il cadavere di Shannon, che ha amato e adorato, fino all’ultimo viscere, fino all’ultimo osso e acquisisce così le sue fattezze, per un transfert cristologico al contrario. Quindi lievita. Lo si può leggere, J’irai… anche come una dissertazione sull’abisso che si spalanca tra fusis e nomos, tra Natura e Norma, che per il “Gran Satrapo Trascendente” (titolo del quale Arrabal fu insignito dal Collegio di Patafisica) sono polarità inconciliabili, senza tuttavia che alla demonizzazione (abbastanza facile) della seconda, corrisponda una idealizzazione del regno di natura: luogo oscuro, numinoso, indecifrabile. «Elle me fait peur, puisque la Nature est comme la Mort», dice oggi Fando. E non è atteggiamento o sparata fatta così, gli si crede. Il film è ostracizzato per un anno, in Francia, in quanto blasfemo, estremo, iconoclasta, morboso, necrofilo, coprofilo, incestuoso, sadico, pedofilo e perché, probabilmente, ha il torto di inserire questo tuorlo che dovrebbe essere rivoltante in un magnifico guscio smaltato, che scintilla e attrae come il più bell’uovo di Fabergé. Le visioni “surreali”, “ombrelli e macchine da cucire appaiati sul tavolo operatorio”, cedono allo Stupefacente ogni carica di orrore, persino quando Emmanuelle Riva vestita come Maria lardella del cotone coi chiodi e lo schiaccia sul pube del figlio; persino se Marzok intinge un fiore rosso nell’ano di una ragazza e poi ne deliba il gambo immerdato o quando alla fine ciancica le carni sparse del cadavere e le addenta. Tutto è bellissimo in un film “d’Arrabal” (così si firma sempre), tutto possiede quel che un panteista irlandese diceva fosse preminenza della Sacra Scrittura, che ha in sé colori e significati infiniti, “come il piumaggio mutevole del pavone”. La Madre che bacia e masturba ma taglia e recide, incombette già nella pièce teatrale di Arrabal Le Grand Ceremonial, del 1963, che nel 1968 diventò film omonimo per la regia di Pierre-Alain Jolivet e in cui il Gran Satrapo fece una brillante performance nella parte di un venditore di biancheria intima. La pellicola è riemersa anche in Italia, quindi non è più prerogativa di iniziati farsene un’idea. Discreta. Michel Tureau vive all’ombra edipica di Ginette Leclerc, finchè non incontra Marcella Saint Amant e avvia con lei una liberatoria relazione sadomasochista.
Il terzo atto creativo di Arrabal, nel cinema, il suo mercoledì, è L’albero di Guernica, che il regista viene a girare in Italia nel 1975 e ambienta, su suggerimento di Pier Paolo Pasolini, tra i “sassi” di Matera, in una Basilicata che sullo schermo deve essere la Spagna del 1936, allo scoppio della guerra civile. «Amo la società, anche se la società mi ha fatto del male. La vorrei baciare sulla bocca e vorrei che essa baciasse sulla bocca me. Ma la società mi interessa molto meno di Dio e del sesso». Trasposto sul film, si potrebbe dire che Guernica lo si ama e si vorrebbe esserne riamati, ma il suo aspetto “politico”, facile, ci avvinghia molto meno delle magnifiche pitture in movimento che sono quei bimbi vestiti di bianco che corrono a rallentatore, reggendo le bandiere rosse, all’inizio; o del gesto della maga Vandale – è il tripudio di Mariangela Melato, Guernica, che è un bellissimo geyser sparato decine di metri al di sopra di un cast poco memorabile – la quale scaglia una brancata di vipere contro tre che cercano di aggredirla. O dei bambini e dei nani che ovunque ruzzano felici, sorridenti tra cadaveri putrefatti – veri? Certo che sì – e montagne di teschi e di ossa. O – stupore-orrore – della corrida snuff nella quale i nani legati a un carretto a forma di toro vengono infilzati con banderillas all’inguine da un matador che poi cala il colpo di grazia con lo spadino. Il film è la storia di come la piccola città di Villa Ramiro, roccaforte della Repubblica, resista strenuamente, fino alla capitolazione, di fronte all’assedio delle forze franchiste. Ron Faber che impersona il pittore Goya e Mariangela Melato, si pongono alla testa della resistenza e dopo la presa della città, scapperanno tra le rocce, dentro il sole al tramonto, dicendosi finalmente i propri nomi. I sigilli di Arrabal lasciano sempre il segno. Coprodotto anche dagli italiani, da Francesco Cinieri, fratello di Cosimo Cinieri che figura ovviamente tra gli interpreti – della quota Italia ci sono anche Mario Novelli e Franco Ressel, al quale Arrabal fa scoccare un bacio appassionato, con lingua e saliva, da un prete, mentre attorno le baionette di drizzano. Guernica risulta revisionato dal Ministero nel 1994 e sarebbe interessante capire che han tagliato per un eventuale passaggio tv: Goya che schizza sperma in un bicchiere di brandy? O il flash – che probabilmente è in sospetto di alleggerimento già all’origine, perché è una cosa lampo – di un affresco in cui una suora fa un pompino a Cristo in croce? O il nano che si avvinghia a una statua di una santa, si fa una sega e bagna di bianco le labbra all’icona? O il crocefisso colpito dai proiettili e fatto saltare pezzo per pezzo? Gli altri quattro film che Arrabal ha girato dal 1975 a oggi, sono La odisea del Pacifico, del 1980, Cementerio de automóviles, del 1981, ¡Adiós Babilonia!, del 1992, e Jorge Luis Borges: una vida de poesía del 1998. Ma come Dio, Arrabal ha partorito il meglio delle opere e dei giorni suoi nella settimana corta…