Parola di Bud Spencer
Non volevo fare l'attore
Parola di Bud Spencer: «In realtà non avevo mai pensato di fare l’attore a tempo pieno. Lavoravo come pubblicitario, per una grossa ditta di Milano, poi mi ero messo a vendere automobili, ho fatto un po’ di tutto nella vita… Non dovevo fare l’attore».
«Nel 1964 era morto mio suocero – era il celebre Peppino Amato, il produttore – e con lui non avevo accennato neppure una volta di fare l’attore. Poi un giorno del 1967, un signore telefonò a mia moglie e le domandò: “Ma suo marito è sempre così grosso come quando faceva sport?”; “No, no – rispose lei – ora è anche più grosso, perché mangia soltanto e non fa più sport!”. Oggi peso 124 chili, ma allora ne pesavo oltre 150. L’uomo al telefono era il regista Giuseppe Colizzi e quando ci incontrammo, dopo avermi guardato, mi domandò: “Parli inglese?”; “No, manco una parola”; “Sai andare a cavallo?”; “No, io ho fatto il nuoto, i cavalli li ho visti solo all’ippodromo”. “Ma la barba te la sei mai fatta crescere?”; “No, io mi rado ogni mattina”; “Quanto vorresti per fare un film?”; “Quanto tempo devo lavorare?”; “Giugno e luglio”; “A giugno ho una cambiale di un milione e mezzo, a luglio un’altra: se lei mi dà tre milioni io faccio il film”; “Sei pazzo, più di 700, 800 mila lire non ti posso dare…”. Io mi sono alzato e me ne sono andato. Colizzi cercò in giro qualcuno che mi somigliasse fisicamente, non l’ha trovato, mi ha richiamato e mi ha pagato la cifra che chiedevo. Questo è stato l’inizio».
«Una volta, sui Trinità, durante una pausa, io, Italo Zingarelli e Enzo Barboni abbiamo mangiato, in tre, sessanta polpette, ognuna delle quali era grande come un hamburger. Poi diciotto filetti di baccalà e due chili e mezzo di pasta. In tre. Fate un po’ voi… Le scene in cui mangiamo, nei nostri film, sono dei momenti importanti. Per girare le scene in quel modo, ci si deve abbandonare all’“Animale Uomo”. Ci dobbiamo scordare completamente quello che è la nostra cultura, la nostra educazione, il modo di stare a tavola… insomma, tutto quello che ci hanno insegnato da bambini. Bisogna sapere essere animali e lì viene fuori la comicità più grande del mondo»
«Giravamo il film in una località della Colombia che si chiama Rivacia, quasi sul confine con il Venezuela. Ogni sera un pilota mi portava a dormire in un hotel che stava a mezz’ora di volo dal set. Eravamo diventati amici, qualche volta mi faceva anche tenere la cloche. Nel film c’erano diverse scene in cui io dovevo pilotare questo aereo: facevamo un camera-car che seguiva l’aereoplano dall’esterno e poi saliva il pilota, si metteva al mio posto, con una parrucca. Capitò che un giorno, durante una di queste scene in cui rullavo sulla pista prima di decollare, feci decollare io, da solo, questo aereo, lo tenni su per un po’ e poi atterrai facendo quello che in gergo si chiama “la quaglia”, cioè dei saltelli, dei piccoli zompi sul terreno. I produttori che erano presenti sulla scena e videro tutto, sudarono freddo, poi mi dissero i peggiori termini possibili. Invece il mio amico pilota mi disse: “Uno che riesce a fare una cosa del genere senza nessuna esperienza, vuol dire che il volo ce l’ha nel sangue. Perché non continui e non impari davvero a pilotare un aereo? Così è nata la mia passione per il volo e oggi ho più di duemila ore di guida in aereo e quattrocento ore in elicottero. Ho più paura di andare da Roma a Milano in macchina che pilotando un aereo».
«Dobbiamo riconoscere che una grande parte del nostro successo, di Terence Hill e mio, è dovuta alle bagarre, alle scazzottate, e di riflesso quindi agli stuntmen, senza i quali queste scene non sarebbero state possibili. Con i nostri film, con le scazzottate che abbiamo rappresentato, noi abbiamo creato un nuovo stile e una maniera di raccontare che nessuno aveva sperimentato prima. Voglio dire che ci siamo inventati un ritmo che permetteva allo spettatore di godersi tutti i momenti della scazzottata, di vedere nel dettaglio tutto quello che succedeva. Io vengo dallo sport e posso assicurare che se nel cinema ci fossero gli stessi tempi – faccio per dire – della lotta greco-romana o di altre discipline, tutto sarebbero meno che spettacolari e il pubblico non li apprezzerebbe. Il nostro segreto è stato di rallentare tutto durante le bagarre e di enfatizzare la gestualità in modo da sottolineare ogni movimento, ogni azione. Nelle nostre intenzioni queste scazzottate dovevano essere solo comiche, senza nessun particolare cruento e infatti non si è mai visto un goccio di sangue nei nostri film, nessuno è mai morto. Quelli che vengono colpiti si rialzano subito dopo».
«Siamo di carattere completamente opposto. Terence è un preciso, uno di madre tedesca, mentre io sono napoletano. Non abbiamo mai litigato una volta che fosse una nella realtà, mai nemmeno uno screzio, però avevamo scoperto che il fatto di stuzzicarci tra di noi e il fatto che io avessi reazioni tardive, funzionava. E quella è una delle gag principali su cui abbiamo fondato la nostra vena brillante e comica. Io sono sempre stato convinto che quando il pubblico riesce a capire prima di me quello che io farò sullo schermo, allora diventa matto, perché già sa quello che succederà e comincia a ridere prima. Questo è uno dei maggiori meccanismi che sono stati alla base del successo del mio personaggio. Il fatto di avere girato quasi se non più di 100 film, in trenta e passa anni di carriera, non mi dava la possibilità di fermarmi a riflettere e a capire che cosa stava succedendo. Da solo o con Terence avevamo solo il tempo di analizzare le cose che piacevano al pubblico per poi metterle in atto in un altro film. Non ho nessun rammarico, salvo forse che avrei dovuto imparare l’inglese molto prima. Ma non avevo il tempo per studiarlo».
«In I 2 superpiedi quasi piatti ci capitò una delle cose più tremende che possano succedere a chi fa cinema. Io e Terence stavamo in una macchina della polizia, una macchina vera, americana, con due fucili piazzati tra il mio sedile e il suo, la sirena, vestiti entrambi da poliziotti americani. Avevamo fatto anche un piccolo corso, prima del film, con la polizia del posto. Mentre giravamo questa scena, però, la produzione si era dimenticata di avvisare la polizia del quartiere di Miami dove ci trovavamo. Avevamo tutti i permessi per girare, ma la polizia non era stata avvertita. E un privato cittadino chiamò le forze dell’ordine dicendo che c’erano due, vestiti da poliziotti e armati, che stavano camminando liberamente nelle strade. Eravamo io e Terence. Fortuna vuole che avessimo la radio accesa e così sentimmo l’allarme che ci riguardava che era stato diramato a tutto le auto della polizia di Miami: “Due individui si aggirano per il quartiere vestiti da poliziotti: attenzione, sono armati!”. A quel punto dissi: “Fermiamoci, Mario!” e ci siamo poi messi con le mani sopra al tetto della macchina in attesa che arrivassero i poliziotti veri».
«La nostra coppia è un caso unico nella storia dello spettacolo, perché io e Mario non abbiamo mai litigato e ancora oggi siamo in ottimi rapporti, ci vediamo, lui viene spesso a mangiare a casa mia perché così può sfogarsi con la pastasciutta, altrimenti lo tengono a stecchetto. Mario, a differenza di me, è sempre stato un fissato; nel senso che è sempre stato fissato con la recitazione, perché lui è un attore vero. Mentre io non mi sono mai considerato un attore. Sono arrivato nel cinema come uno che entra in una stanza avendo una benda sugli occhi e che deve muoversi a tentoni, nel buio. Poi, dopo tutti i film che ho fatto, qualcosa ho finito per impararlo su come si recita. Ma io non mi sono considerato un attore, io sono sempre stato un personaggio. Mentre Mario è nato proprio attore e ama il lavoro di attore in modo particolarissimo. È un uomo straordinario, Mario, nobile da ogni punto di vista. Questa differenza tra noi è stata anche il segreto della nostra forza, il motivo per cui non abbiamo mai avuto contrasti, perché io non ho mai lottato o sgomitato o litigato per avere un primo piano in più, proprio perché non mi sono mai sentito un attore e non avevo le ambizioni di un attore».