La faccia violenta di New York
1973
La faccia violenta di New York è un film del 1973, diretto da George Darnell
Grazie alla Minerva e al passaggio su Sky, torna alla luce un misconosciuto ma ottimo noir italo/messicano, La faccia violenta di New York (1973) di George (Jorge) Darnell. Un film durissimo e ancora attuale, nonché oggetto “alieno” per vari motivi: la curiosa co-produzione fra Italia e Messico, che unisce attori e maestranze di entrambi i Paesi; il mirabile equilibrio raggiunto fra “discorso” ed “exploitation” (con varie scene di violenza ed erotismo); la storia narrata, una delle prime a trattare un argomento così scomodo come l’immigrazione negli States. Sergio Fuente (Sergio Jimenez) è un messicano che attraversa clandestinamente il Rio Grande in cerca di fortuna, affidandosi a una losca organizzazione. Approdato a New York, entra in contatto con la Fratellanza dei popoli latini e con il vecchio amico Javier (Luigi Pistilli), che a sua volta lo presenta al misterioso Mr. David (Fernando Rey). Con la promessa dei documenti, Sergio inizia a svolgere i lavori più umili e ingrati, finché si accorge di essere finito in una spietata banda che traffica i clandestini a scopo di lucro e in cui è coinvolta anche la Fratellanza. Innamoratosi della giovane compagna di David, Milena (Mimsy Farmer), cerca di ribellarsi e di fuggire con lei verso una vita migliore, ma deve fare i conti con la gang.
Se il titolo è chiaramente ispirato al Braccio violento della legge (prassi abitudinaria all’epoca), come vicenda e stile siamo però da tutt’altra parte. La faccia violenta di New York non è particolarmente ricco d’azione, ma è una riuscita unione di dramma e noir metropolitano che la regia scandisce con un ritmo secco, nervoso e violento (all’americana, quasi pre-scorsesiano possiamo dire), creando un’atmosfera cruda e crepuscolare che lo rende un film a suo modo unico. Il ruolo da protagonista è affidato all’attore messicano Sergio Jimenez, con il volto e l’espressività giusta da perdente in cerca di riscatto (nella versione italiana, la voce è di Ferruccio Amendola, che gli conferisce un coté alla Tomas Milian). Lo affiancano volti noti del cinema italiano e non solo, in ruoli talvolta stereotipati ma efficaci, oltre a caratteristi messicani: una Farmer mora e quasi irriconoscibile ma fragile come siamo abituati a vederla, la solita carogna Pistilli e il grande Fernando Rey nel ruolo dello spietato boss. Da notare anche un altro celebre villain del poliziesco nostrano, Adolfo Lastretti, e la curiosa presenza di Renato Pinciroli (l’indimenticabile Rimediotti del Piatto piange di Paolo Nuzzi) qui nel ruolo di un losco imprenditore in combutta con l’organizzazione. Certe sequenze rimangono impresse per la loro durezza, una violenza corporale e realistica che non concede nulla allo spettacolo: i messicani falciati dai mitra nel fiume, il pestaggio ai danni di Jimenez nella sala da bowling, l’irruzione della polizia, la disinfestazione nello squallido caseggiato degli immigrati, le esecuzioni con il coltello, ma più di tutte l’operaio ribelle picchiato selvaggiamente, poi ucciso a badilate in testa e nascosto in un sacco.
Tutto puzza di miseria e disperazione, dai personaggi alle location; il fatto che sia una produzione con un budget non altissimo si nota dalla prevalenza degli interni sugli esterni, ma quegli esterni che vediamo fotografano l’atmosfera in modo istantaneo, dai grattacieli con le illusorie “mille luci” alle baracche, dal profilo di New York (con lo struggente confronto sul molo fra Sergio e Javier) ai flashback bucolici in cui Sergio ricorda il suo passato in Messico. Il protagonista è imprigionato in una realtà meschina in cui non si riconosce, così come Milena (di fatto, schiava del boss), due personaggi borderline che devono lottare soli contro tutti e che sono inevitabilmente condannati alla sconfitta. Superlative le malinconiche musiche di Riz Ortolani, che curiosamente riecheggiano in alcuni accordi il brano da lui stesso composto per No! Il caso è felicemente risolto di Vittorio Salerno. Quasi un western urbano, non distante per certi versi dai film revisionisti sulla fine del sogno americano quali Un uomo da marciapiede o varie opere di Sam Peckinpah.