Detroit
Detroit è un film del 2017, diretto da Kathryn Bigelow
Luglio 1967, le comunità nere si rivoltano contro la polizia bianca: il risultato sarà una settimana intensa di guerriglia urbana che metterà a ferro e fuoco le strade di Detroit. La polizia protetta dal suo distintivo-scudo farà fuoco su ogni persona di colore, adulto o bambino che sia. Nessun diritto, l’anarchia regnerà sovrana e le reazioni violente esploderanno in ogni vicolo. Mai come in questa occasione Kathryn Bigelow decide di sporcarsi le mani per raccontare con una forza sorprendente un particolare evento di cronaca che ancora non ha trovato giustizia: un grosso abuso di potere da parte di alcuni poliziotti che una sera, a seguito di una chiamata, presero d’assedio un motel alla periferia della città, uccidendo, o meglio, giustiziando, alcuni ragazzi di colore senza un apparente motivo. Da uno script di Mark Boal, tra il cinema documentaristico e il film di assedio dal montaggio serratissimo, la Bigelow non indaga tanto sulla cronaca, ma si sofferma sulla semplicistica formula di azione e reazione. I giovani poliziotti autori del massacro si fanno belli e affascinanti dietro il loro scudo, ma le ragazze dell’albergo vanno a letto con i giovani ragazzi di colore. Li preferiscono, forse sono più bravi o dotati e questo mette chiari grilli per la testa dei poliziotti; le rivolte cittadine sono un ottimo pretesto per trasformare scelte o situazioni del genere in un lasciapassare per la strada dell’inferno e la stessa città di Detroit in un vero e proprio Far West.
Camera a mano, realizzazione sporca e grezza, la Bigelow porta lo spettatore dentro quell’inferno non più di cristallo ma fatto di pareti sporche di sangue e puntellate di colpi che la polizia spara per gusto e intimidazione. Come già successo con Warrior di Gavin O’Connor, il messaggio, la forma, il contenuto e il cinema stesso viene narrato dai corpi dei protagonisti. La Bigelow trasforma ogni corpo attoriale ferito, piegato e martoriato in cinema. La resa cinematografica passa attraverso le percosse, il sangue tra i denti e l’abuso di potere. Detroit finisce per dividersi in tre atti distinti ma necessari: i tumulti iniziali e conseguente degenerazione dello stato civile nella cittadina, l’assedio serrato e claustrofobico nel motel e infine le ripercussioni successive, con annesso processo al libero abuso di potere della polizia. Non c’è un vero e proprio protagonista con cui assorbire tutta la storia, ognuno vivrà una propria situazione paradossale dove vedrà negarsi o capovolgersi i propri diritti. La polizia spara ma forse non doveva sparare, la giovane guardia giurata nera (John Boyega) non ha sparato, ma serve un capro espiatorio (preferibilmente nero) a cui imputare la paternità di quei bossoli dentro e fuori il motel.
In questa forma e messa in scena, Detroit è un film necessariamente violento e doloroso, con relativi pesi e misure sul valore della vita umana, ma è proprio questa ambiguità che regala un’opera raffinatissima e dal forte impatto sia emozionale che intellettuale. La visione di Detroit è pari a una fredda lama che entra nella nuca e si fa strada all’interno del corpo fino a esplodere nel petto, colpisce lo stomaco, non risparmia nessun organo vitale, risultando volontariamente disgustoso ma necessario, per restituire al meglio il marciume raffinato di una vicenda che ancora tiene banco tra media e lotte razziali, e che per quanto se ne ometta, è un ostacolo che sembra ostruire ancora oggi come cinquant’anni fa, la strada verso l’uguaglianza. Sembra questo il messaggio della Bigelow: narrarci la storia rendendo retroattivo un evento più attuale che mai.