L’immortale
2017
L’immortale è un film del 2017, diretto da Miike Takashi
Dopo la distribuzione di Yakuza Apocalypse da parte della Midnight Factory, allo spirare del 2017 è stato portato sulla piattaforma Netflix L’immortale, il ritorno del poliedrico Miike Takashi al jidai-geki (il “cappa e spada” nipponico) dai tempi del da noi distribuito 13 Assassini e dell’inedito Hara-Kiri – Death of a samurai. Superata la sorpresa per un connubio regista-distributore così inusuale, si può immediatamente dire che, pur essendo un prodotto tra i più accessibili della sua filmografia, nell’Immortale ritroviamo l’essenza di Miike. Tratto dall’omonimo manga di Hiroaki Samura, narra la storia di una ragazzina di nome Rin e della sua vendetta contro gli Itto-ryu, un gruppo di spadiccini che hanno ucciso i suoi genitori. Per combatterli deciderà di assoldare Manji, un guerriero solitario, reso immortale da una misteriosa monaca che, iniettando delle sanguisughe nel suo corpo, ha fatto in modo che ogni ferita subita si rimarginasse immediatamente. Da questo incipit di trama alla True Grit emerge da subito la conclamata passione di Miike per il western, sublimata ormai dieci anni fa in Sukiyaki Western Django. E siccome la mela non cade mai troppo lontana dall’albero, è inevitabile, sin dal prologo in bianco e nero, pensare al vate Kurosawa Akira.
Per il resto, siamo davanti al puro Miike, anche se “for dummies”. Come al solito, non viene risparmiato allo spettatore quel genuino parossismo per quanto riguarda la violenza, magari con qualche strizzatina d’occhio al primo volume di Kill Bill per l’audience più mainstream. Un gore certamente più dissacrante e ironico, come certe sequenze che ci fanno capire quante lame possono essere infilzate in un corpo umano. Inoltre, va sottolineata la componente videoludica di L’immortale, diviso narrativamente (ma anche velatamente) in veri e propri livelli dove, a combattere col protagonista, si succedono i diversi componenti degli Itto-ryu: tutti caratterizzati in maniera esasperata e bizzarra, dal sadico pedofilo da manuale alla guerriera emofobica. Ma è sulla complessità di Manji che si regge l’intreccio: sulla sua condizione di prigioniero della vita che cozza terribilmente con quel sentimento di rassegnazione che prova chi ha perso tutto e vuole solo farla finita. L’ingaggio da parte della piccola Rin sarà presa come la grande occasione per trovare la morte, ma le carte del cuore, si sa, possono sempre essere scombinate.
Per quanto la componente sentimentale possa sembrare preponderante negli interessi dell’intreccio, va chiarito che le aspirazioni di Miike rimangono sempre più complesse di ciò che appare. All’interno dell’inevitabile e prevedibile sviluppo che prenderà il rapporto tra Manji e la piccola Rin vi è, in realtà, uno sguardo più esteso verso la filosofia del samurai e dell’uomo sociale nipponico, compreso quello attuale. Gli stessi antagonisti Itto-ryu si fanno portatori di un messaggio positivo, antitradizionalistico, che non trova nella morte autoinflitta l’unica soluzione al fallimento. Contro una società tutt’oggi votata al martirio e all’egoismo, Miike oppone questo romanzo di formazione per grandi e piccini, dove il vero senso dell’esistenza sta nella lotta contro le ingiustizie e nel trionfo della vita, dove il sacrificio richiesto non è tanto quello della carne ma piuttosto quello dell’interesse personale. Una morale contro il passato oscurantista che fa comprendere al protagonista e agli spettatori che, come dice uno degli avversari di Manji, “morire non è così facile”.