I figli degli uomini
2006
I figli degli uomini è un film del 2006, diretto da Alfonso Cuaròn
Poco da dire. Gli inglesi lo fanno meglio, con un messicano di buon lignaggio cinematografico seduto alla seggiola della regia, quell’Alfonso Cuaròn già apprezzato in campo fantasy (Harry Potter e il prigioniero di Azkaban) e non solo. La realtà post-apocalittica e post-industriale, quello strato di lercio e violenza spontanea, in ogni angolo, attraversata da protagonisti rassegnati, che la vivono con una strana normalità. Questa è l’esistenza, con poco significato, di Theo, vista attraverso gli occhi azzurri di Clive Owen; physique du rôle e faccia da 007 mancato, che sopravvive nella zona franca. Una Londra non troppo distante dal futuro e dal tessuto urbano contemporaneo, se non per i classici autobus a due piani di un rosso liso, che ci ricordano che qualcosa è cambiato. Qualcosa si è rotto, qualcosa non va. Vecchio trucco della distopia più cinica, che ci mostra mondi terrificanti perché, poi, non così distanti dal nostro vissuto quotidiano. Il monito funziona così. Un prospettiva abbastanza prossima da poterla quasi toccare, un vicolo dell’esistenza in cui ci potremmo tranquillamente infilare. Architettura dell’angoscia. Ma nel piatto stavolta c’è un pudding tutto centrato sull’infertilità che ha colpito il genere umano. Una chiave potente, perché porta con se più drammi contemporaneamente.
Una vita senza figli è una vita che vale ancora la pena vivere? Se muore la conservazione della specie, il nostro programma genetico originario, quanto profondo diventa il nostro dramma esistenziale? Quanto ci corre incontro una morte meccanicistica e inutile quanto il nostro vissuto? I figli degli uomini sarebbe potuto essere un film di grande profondità filosofica, dall’impianto narrativo solido, basato sull’omonimo romanzo di P.D. James. Peccato si sia voluta attualizzare la minestra con l’introduzione del tema razziale, del melting pot delle genti che viaggiano allo sbando fra una terra e un’altra, senza un senso preciso. Buona scelta dal punto di vista pop, un po’ meno sull’obsolescenza della trama, che ne resta inevitabilmente colpita. Nel 2027, ormai da diciotto anni non nascono più bambini. Un’umanità in bilico fra una parvenza di normalità e un degrado dilagante ai suoi margini, con uno Stato eclissato che per una volta non richiama il totem distopico del totalitarismo. A Theo viene affidato il compito più importante, la salvaguardia di tutta la razza umana. Che ha il peso di una ragazzina nera incinta, una sorta di neo-Madonna senza passato e senza affetti, che ha una sua Betlemme da raggiungere. Il Progetto Umano. Una fantomatica comunità-santuario, in cui si starebbero gettando le basi per la nuova umanità.
Per compiere la sua missione, il protagonista si troverà invischiato fra i ribelli politicizzati, dei quali fa parte anche la ex moglie Julian (Julianne Moore) e costretto a fingersi immigrato clandestino con la ragazza e una non ben descritta ostetrica, provando anche le vessazioni dei campi profughi. Il tutto attraversando uno scenario da guerra balcanica in cui tutti sparano a tutti e con l’aiuto improbabile più vario, che va dal mentore auto-esiliatosi nella foresta a una zingara sfruttatrice, che si riscopre dal cuore d’oro come una novella Maddalena. Nei Figli degli uomini il cattolico Cuaròn non fa mistero di questo approccio da esegesi biblica per il mondo di oggi. Ma, a onor del vero, è l’unico vezzo che si concede il regista, per una volta abbandonando il troppo facile esercizio citazionista di oltre-mondi nuclearizzati e desertici, iconografie naziste, bianchi infiniti. Con un finale che apre alla solita speranza e che stona perché è una nota a stelle e strisce in un concerto tutto in uniforme Union Jack. E tiene saldamente la pellicola nel campo della fantascienza post-apocalittica, senza avere il coraggio di traghettarla verso la morte vera di una nuova utopia. Peccato: ci sarebbe piaciuto scoprire che in qualche magazzino riposa una versione montata con un finale più cattivo e cinicamente europeo.