Intervista a Catherine Breillat
Incontro con la regista e scrittrice che ha raccontato il mito dell’adolescenza senza tabù.
Nell’attesa del dossier Maladolescenza 2.0, vi riproponiamo un’ intervista alla regista Catherine Breillat, a cura di Manlio Gomarasca e Gigi Spanu, tratta da Nocturno Book Maladolescenza – All’ombra delle fanciulle in fiore (set. 2001).
Ci parli un po’ del suo ultimo film presentato allo scorso festival di Venezia, Brève Traversée…
Brève Traversée si basa quasi esclusivamente su un breve incontro: è la storia di un ragazzo francese molto giovane, di sedici anni, che si innamora di una donna inglese molto più vecchia. In effetti, è la prima volta che giro un film su un ragazzo così giovane, in cui la camera è fissata sulle sue emozioni amorose, sulla sua scoperta dei sentimenti. È un film che si sviluppa quasi esclusivamente su una nave in viaggio tra la Francia e l’Inghilterra. In realtà non si tratta che di alcune ore, di una notte, ma il traghetto è talmente grande, e pieno di cose da fare o comprare, che sembra si tratti di una traversata transatlantica. E quest’impressione si percepisce realmente, perché di colpo si è fuori dal tempo e in una realtà che è come fosse sospesa, dove ci si può permettere tutto. C’è un momento nel film in cui si dice che si è sopra l’oceano, al di sopra di ogni legge, ed è vero: ad un certo punto si percepisce come una parentesi di vita che mostra questa sorta di rapporto d’intimità assoluta tra degli sconosciuti, in una maniera che è allo stesso tempo molto fragile e piena di sfumature. Non ce l’aspettiamo, ma il ragazzo si innamora e diventa un oggetto di desiderio mentre sta mangiando una crème brulée. Dunque, di colpo, lui si rende conto che non guarda lei, o almeno che la guarda in modo diverso, e anche la macchina da presa, di conseguenza, lo guarda in maniera differente, e lui diventa un oggetto d’amore. Avevo proprio voglia di “vedere” un ragazzo come se fosse una ragazza, come se fosse totalmente un oggetto di desiderio, filmato come un giovane del Rinascimento italiano, con un aspetto femminile, perché trovo che questo approccio sia assolutamente magnifico. Così nel mio film i due personaggi celebrano gradualmente il passaggio da sconosciuti che, durante una cena, non si guardano nemmeno mentre condividono il tavolo, a due persone che si conoscono, diventano amanti e molto intimi. Si passa da quest’estraneità assoluta, alla colazione che il mattino seguente faranno insieme; dal modo in cui si guardano, che sembra il preludio di una nuova vita insieme e di un immenso amore, al momento in cui, invece, lei scende dal battello e sparisce, diventando nuovamente una sconosciuta. È quindi il percorso della storia d’amore che si traccia tra queste due persone che non si conoscevano prima. Lei è più vecchia di lui, ha una trentina d’anni, ha tratti molto, molto inglesi, perché, per esempio, ha una pelle bianchissima, gli occhi blu, i capelli rossi tipicamente inglesi o irlandesi, ed ha un temperamento decisamente anglosassone. Lui, sebbene abbia avuto meno esperienze di lei, e stia vivendo la sua “prima volta”, è di natura latina, dunque con caratteristiche molto emozionali da un punto di vista carnale; lei, al contrario, è di natura eccessivamente fredda, frigida e intrisa di tutto il rigore dei divieti anglosassoni protestanti che, se possibile, sono anche peggiori di quelli cattolici.
Il film è stato girato in digitale?
No, quando si parla di carnalità, di pelle, si deve girare in pellicola. Perché, voglio dire, sarebbe come chiedere a un pittore che sta dipingendo con colori ad olio di usare dei colori acrilici. Il digitale va molto bene, ma quando si tratta di un soggetto come questo, che deve essere a fior di pelle, bisogna usare la pellicola.
Ha avuto problemi con la censura, o comunque si è dovuta autolimitare, visto che questo film è stato prodotto per la televisione?
No, assolutamente. Si dice sempre che girare sia un gioco, che bisogna giocare, ma io dico sempre, con gran serietà, che per me non si tratta di un gioco: per me è un’arte, e io voglio essere fiera di quello che faccio. Non mi limito mai in rapporto alla censura, mai. Penso che, se mi si chiede di girare qualcosa, ci si debba automaticamente assumere delle responsabilità, e credo che non spetti a me pensare ad eventuali problemi con la censura. Per esempio, ho voluto che il ragazzo nel mio film fosse completamente nudo, che fosse nella sua intimità da “prima volta”, e all’inizio molto, molto timido; solo in seguito ho sottolineato questa specie di orgoglio del corpo, che lo porta ad uscire dalla doccia, a camminare nudo davanti a lei, senza che questo sia più un problema; e tutto questo fa parte del racconto, quindi non l’ho censurato, non capisco perché avrei dovuto. Inoltre questo film s’inserisce in un progetto televisivo che si intitola Masculin Feminin e quindi, visto che si ha da sempre il diritto di mostrare ragazze completamente nude mentre non si ha ancora l’abitudine di mostrare la nudità maschile, non vedo perché avrei dovuto limitarmi in una serie che si intitola così. Comunque no, non mi censuro mai. Veramente, non lo faccio. La mia personale definizione di censura è che essa inventi interamente ciò da cui pretende di proteggerci: infatti, definisce il territorio del politicamente corretto, e quindi del proibito, e stabilisce di conseguenza quello di cui dobbiamo aver vergogna. Io sono una regista e ho uno sguardo particolare sulle cose: credo che la vergogna esista solo quando lo sguardo che descrive è volgare, laido, quindi provoca vergogna. Per intenderci, se si è nudi e qualcuno ci guarda in modo morboso e lascivo, questa nudità ci fa provare vergogna; se, al contrario, si è nudi, e anche gli altri lo sono, non c’è alcuna vergogna, perché lo sguardo che si riceve è molto umano e non provoca imbarazzi. Anche gli attori, per esempio, che all’inizio hanno sempre molta paura di spogliarsi, in un secondo tempo si rendono conto che è un lavoro, un’arte, una necessità, e alla fine acquistano la consapevolezza che questo non provoca imbarazzo, subentra il piacere di recitare, e in questo modo avviene finalmente la neutralizzazione della censura. E’ la censura stessa a materializzare il terreno di un’oscenità che non esiste.
L’adolescenza è da sempre uno degli argomenti più utilizzati nel suo lavoro. Come mai uno dei suoi temi fondamentali – anche se nell’ultimo film lei affronta una realtà ribaltata, che vede la relazione tra un giovane uomo e una donna molto più matura – è il sesso adolescenziale?
Perché la sessualità tra adolescenti? Perché è completamente sconvolgente! In Brève Traversée l’attore che interpreta il ragazzo ha, in realtà, diciotto anni. Erano due o tre giorni che giravamo e mi sono resa conto che non avevamo raggiunto un’intesa, non c’era alcuna intimità tra noi. Lui aveva l’aria timidissima, una voce sussurrata, tanto che il microfono non la prendeva, quasi. Un giorno eravamo a tavola, con tutta la troupe, e io, non so nemmeno perché, gli ho domandato se si fosse mai innamorato, così. Lui mi ha guardato direttamente negli occhi e mi ha detto con una voce appena udibile, ma comunque chiara: “Sì, sono già stato innamorato ma non sono mai passato ai fatti”. Ci siamo guardati tutti un po’ straniti, perché, insomma, nel film interpretava un ragazzo di sedici anni, ma nella realtà ne ha diciotto, anche se questa eccessiva timidezza contribuisce a farlo apparire più giovane. In seguito ho dovuto riscrivere, in parte, la scena d’amore tra lei e lui, perché lei muoveva il suo corpo in maniera molto maldestra, rigida, molto anglosassone, lui aveva fattezze latine ma era davvero timido, e quindi mi sono detta che quello che avevo scritto non corrispondeva alla natura dei loro corpi, e ho creato una coreografia che corrispondesse loro meglio. Allora ho disposto che lui si spogliasse, mentre originalmente doveva farlo lei, e ho detto al mio capo operatore che tutte le scene dovevano essere filmate una sola volta, non ci doveva essere alcuna ripetizione, perché quello che sarebbe successo la prima volta sarebbe stato qualcosa di davvero sconvolgente. Ed è vero, la loro scena d’amore è magnifica, perché di colpo si vede che lui lo fa, lo vive, ma è talmente fragile e talmente forte allo stesso tempo che se ci fosse stata una seconda ripresa lui sarebbe stato già abituato alla scena. Sì, e non ci sarebbe più stata questa emozione fragile che io trovo davvero perturbante. L’adolescenza è talmente sconvolgente! Chiedermi perché mi interessa è come chiedermi, non so, perché stia guardando una farfalla che sta uscendo dalla sua crisalide, e muove le sue ali: non è quasi ancora una farfalla, da principio, ma due minuti dopo lo è già diventata, e questa trasformazione è assolutamente magica, magnifica. Si può notare questa magia nei giovani – ragazze o ragazzi, è esattamente uguale – e la si vede anche nei loro sforzi per diventare attori: alle volte hanno tutto questo desiderio di compromettersi con il mondo, alle volte, invece, hanno quest’innocenza, questa timidezza e al tempo stesso questa arroganza che è tipica della gioventù. Sono pieni di contraddizioni, e in questo sta la loro bellezza.
Nel film A mia sorella questo momento magico, che segna il passaggio dall’adolescenza alla vita adulta attraverso la scoperta del sesso, è legato ad un’atmosfera molto forte, quasi cattiva. Lo stesso finale non è affatto liberatorio. Come mai?
Sì, perché in questo film c’è il desiderio dell’adolescenza di entrare nell’età adulta pur negando assolutamente il mondo adulto stesso, così come si presenta; infatti, è evidente che queste due giovani ragazze, due adolescenti, non vogliono più essere delle ragazzine, ma non vogliono in nessun caso essere come gli adulti che vedono intorno a sé, nella loro vita. Dunque vogliono inventare il mondo, e inventare il mondo è una sofferenza totale, significa anche distruggersi, perché il mondo è più forte di noi.
In questo film, A mia sorella, sono presenti elementi autobiografici?
Ci sono due elementi tratti dalla cronaca all’inizio e alla fine. Per l’inizio in realtà mi sono ispirata a una giovane ragazzina italiana, che avevo visto, otto o dieci anni prima, in una piscina di Taormina, e che faceva esattamente la stessa scena iniziale. A parte la canzone iniziale che ho cambiato, quella di Françoise Hardy, che cantava Tous les garçons et les filles de mon age, la scena iniziale era esattamente come questa, e la cosa era stupefacente; quando l’ho vista uscire dall’acqua mi sono resa conto che la ragazzina aveva dodici anni, ed era ancora più giovane di Anais. La fine, invece, è ispirata a un fatto di cronaca francese che mi aveva molto colpito circa vent’anni fa, e mi sono detta che se avessi messo questa ragazzina nel film, alla fine quello che avrebbe rappresentato sarebbe stato completamente diverso da quello che raccontavano i ragazzi dell’epoca, intrisi di “politicamente corretto”. Ho utilizzato queste due cose e, in seguito, le ho come “riempite”: quindi c’era una macchina di persone che ritornavano dalle vacanze, una sorella… e quasi senza che lo sapessi è apparso nel film l’elemento “sorella”, ed è vero che anch’io ne ho una, e quindi chiaramente ho messo molte cose di noi due, ma non l’ho veramente fatto apposta. Può essere che sia per questo che ho cambiato il titolo alla vigilia dell’uscita del film, perché l’avevo sempre girato sotto il titolo “Fight Girl”, perché per me il soggetto del film era questa piccola ragazza grassoccia che era al di fuori del mondo, che era esclusa dal mondo, ma che al tempo stesso viveva in un certo senso molto meglio tutto ciò che si poteva vivere, perché comprendeva tutto, aveva l’intelligenza perché era esclusa. Poi di colpo mi sono resa conto che si trattava anche di un soggetto di un’anima a due corpi, ovvero di una sola entità, costituita da due sorelle, con due corpi, che possono risultare antagoniste o complici e che vivono la propria vita autonomamente ma che al tempo stesso non sono mai realmente distaccate l’una dall’altra, come fossero delle siamesi dello spirito.
Non ha mai pensato di riprendere la parentesi recitativa che aveva intrapreso in A mia sorella o in Ultimo tango a Parigi?
Quando ero piccola e ho lasciato la mia orribile piccola città di provincia volevo essere attrice, scrittrice, regista, cantante. Ed effettivamente è vero che volevo diventare regista, ma volevo anche diventare attrice, e mia sorella mi accompagnava. Ma era solo un’idea sciocca, perché non sono assolutamente tagliata per fare l’attrice. Il bello è che durante i provini prendevano sempre mia sorella: lei non voleva, voleva terminare degli studi normali, ma era davvero molto bella e particolarmente dotata come attrice e quindi ecco, ha fatto carriera in Francia, anche se poi si è fermata perché non ha mai davvero voluto farlo e non ha mai amato questo lavoro, anche se può sembrare molto strano. Io, al contrario, volevo fare cinema, volevo farlo da ogni lato della cinepresa, ma è vero che quando sono riuscita a farlo dietro alla cinepresa mi sono resa conto che non avevo assolutamente voglia di essere attrice. Nel cinema quando si è attori si è l’oggetto del film, ovvero si è presi dallo sguardo di un altro e non si sa esattamente cosa si sta facendo; quando si fa del cinema invece si sa esattamente cosa si sta facendo, anche se, curiosamente, essere regista comporta un rapporto molto strano con gli attori che, come ho detto, sono l’oggetto del film e non il soggetto e che sono persone, e in quanto tali non possono né devono necessariamente obbedire. Gli attori sono materiale vivente, ma al tempo stesso sono “il” materiale con cui si fa un film, e questa è la magia del cinema.
A proposito di attori. Perché ha pensato a Rocco Siffredi per il film Romance?
Ho sempre adorato Rocco Siffredi. Avevo pensato a lui già dal momento di Parfait Amour! e poi, invece, ho scelto un’attrice molto più giovane di quanto volessi all’inizio, e quindi ho pensato che Rocco fosse troppo vecchio per questa parte. Quindi ho scelto un ragazzo molto più giovane (Francis Renaud). Quando ho fatto Romance inizialmente non pensavo affatto a Rocco Siffredi, ma per puro effetto di censura, perché temevo che potesse essere male interpretato, e poi man mano che facevo provini e non trovavo nessun attore adatto, di colpo mi sono detta che stavo stranamente mancando d’audacia e coraggio, perché il mio vero desiderio era di lavorare con Rocco.
Aveva scelto un’altra attrice, prima di Caroline Doucey ?
Ci sono state diverse attrici venute per fare un provino, ma Caroline Doucey era allo stesso tempo la più fragile e la più determinata. E c’era anche un’altra attrice che io adoro, Laure Marsac, che non ha voluto interpretare il ruolo come era, voleva che lo si facesse in maniera estremamente convenzionale, cioè con tutte le censure di quel periodo, e io assolutamente non volevo. Io trovo che Laure Marsac è un’attrice magnifica, che non fa assolutamente la carriera che dovrebbe fare; trovo che sia di una bellezza incredibile e che abbia un enorme talento, ma non mi dispiace affatto che per Romance ci sia stata Caroline. Non avrebbe potuto esserci qualcun altro. E mentre Laure è una bionda con gli occhi azzurri, Caroline è come un disegno, bruna, con gli occhi scuri e si può dire che abbia scelto i colori di Romance in funzione di Caroline, che è come un disegno in bianco e nero, come una serigrafia giapponese. Dunque è lei l’attrice del film, non ce ne sono altre…