Mission Impossible: la storia della saga
Dal progetto televisivo alla lunga serie di film sull'agente Ethan Hunt
Diciamoci la verità: in fondo in fondo gli americani hanno sempre un po’ sofferto di un certo complesso d’inferiorità nei confronti degli ex padroni britannici, tanto nella vita quanto nel cinema. Complice, forse, la fisiologica e strisciante paranoia covata in seno alla Guerra Fredda sin dall’immediato dopoguerra, la gara a chi ha la pellicola più lunga si è rivelata, spesse volte, un’autentica ossessione per i capoccioni dell’entertainment a stelle e strisce, soprattutto dopo che, nell’ormai giurassico 1962, gli schermi di Sua Maestà Elisabetta II d’Inghilterra videro per la prima volta materializzarsi le sornione prodezze del fascinoso Sean Connery alias James Bond. L’avvento dell’agente segreto 007, con la proverbiale licenza di uccidere partorita dalla fantasia dell’ex spia donnaiola Ian Fleming, deve aver causato parecchi pruriti ai sensibilissimi sfinteri dello Zio Sam, tanto da mettere in moto dollaroni e cervelloni al fine di partorire una figura altrettanto iconica in seno alla brulicante intelligence yankee, all’epoca adombrata dall’ingombrante mole di J Edgar Hoover. Tuttavia, ancor prima della celluloide, fu il tubo catodico a doversi spremere le meningi, chiamando in causa quel geniaccio – purtroppo ancor oggi penosamente sottovalutato – di Bruce Geller, autentico showrunner ante litteram impiegato alla corte CBS e forte del sostegno della storica Desilu Production, prima che quest’ultima venisse fagocitata dalla Gulf+Western e in seguito digerita nella forma della nuova Paramount Television. E così, dopo quasi tre anni d’intenso impegno, chiuso nel buio della sua cameretta, il vecchio zio Bruce se ne esce con un progetto televisivo alquanto ambizioso quanto il titolo che porta: Mission: Impossible, articolato in ben sette stagioni, trasmesse interrottamente dal 1966 al 1973, per un totale di 171 episodi e uno share internazionale superiore al 65%. Le adrenaliniche avventure dell’Impossible Mission Force (IMF), supersegreta e ultra cool task force capitanata dall’indecifrabile Dan Briggs (Steven Hill) e con al soldo innumerevoli infiltrati sotto copertura – tra cui la storica coppia (tanto sul set quanto nella vita) Martin Landau–Barbara Brain, che dal 1975 al 1977 sarebbero passati entrambi alla “concorrenza” anglo-italiana con la serie Sci-Fi Spazio 1999 – fecero il loro esordio nella terra di Dante, col consueto proverbiale ritardo, nell’aprile del 1969 grazie alla coraggiosa Rai 2, per poi barcamenarsi in un’autentica gimcana televisiva tra RSI, TF1 e TMC, prima di spiaggiarsi definitivamente sul palinsesto dell’allora neonata Canale 5 al principio degli anni ’80. Era solo questione di tempo prima che le incalzanti note dell’iconico tema musicale di Lalo Schifrin, in perfetto accompagnamento a mirabolanti trasformismi facciali degni di Arturo Brachetti e ai celeberrimi messaggi su nastro autodistruttivo, entrassero prepotentemente nell’immaginario collettivo di un’intera generazione, pronti a esplodere con glorie ben maggiori nell’immediato futuro.
A seguito dell’impressionante successo di pubblico, forgiatosi a fatica nel corso di un decennio abbondante – e in parte messo pericolosamente a rischio dalle deludenti due stagioni di New Mission: Impossibile, bislacca operazione agée partorita dall’ABC tra il 1988 e il 1990 –, sul finire del millennio, da più parti iniziano a levarsi tonati voci a sostegno di un’attesa e a lungo agognata migrazione del progetto targato Geller in quel di Hollywood, soprattutto dopo la cocente delusione generata da Mission Impossible Versus the Mob (da noi Squadra dell’Impossibile: Due volti per morire), svogliatissimo montaggio di un paio di episodi della terza stagione spacciato per lungometraggio nel caldo autunno del 1968. Una paraculata senza capo né coda, insomma! Accantonati bislacchi colpi di testa e ben decisi a far tintinnare il salvadanaio, è mamma Paramount a mettersi seriamente in gioco, soprattutto dopo l’insistente spinta generata da un fan sfegatato del calibro di Tom Cruise, deciso a contribuire in maniera sostanziosa al progetto, sia come co-produttore, assieme alla fida Paula Wagner, sia in qualità d’interprete principale. Fuori 80 milionicini, dunque, e bando alle ciance! Di lavoro da fare, per gli sceneggiatori David Koepp (reduce dall’ottimo lavoro con lo script di Jurassic Park) e Steven Zaillian, ce n’è a bizzeffe, soprattutto se a guidare la baracca viene chiamato un certo Brian De Palma, non proprio l’ultimo pischellino della cinepresa, deciso darsi alla pazza gioia con i consueti trastulli filo-hitchcockiani e inzuppando ogni inquadratura di split-screen e soggettive a gogò. Malgrado un comparto tecnico e attoriale di primo livello, e nonostante una grande fiducia generale, nessuno si sarebbe mai aspettato che Mission: Impossible, all’indomani della sua uscita, nel maggio 1996, potesse racimolare qualcosa come 11,8 milioni di dollari, polverizzando i precedenti record di Terminator 2 – Il giorno del giudizio (1991) e Jurassic Park (1993), portandosi a casa la graditissima sommetta di ben 457 milioni all the world. Colpa forse del nuovo iconico agente segreto CIA Ethan Hunt, un figacciosissimo e ultratecnologico Tom Cruise impegnato in salti e capriole da cardiopalma, rigorosamente senza controfigura? Colpa forse di uno score da top ten firmato dagli U2 Larry Mullen e Adam Clayton? Colpa forse di una regia mirabolante e senza la ben che minima sbavatura? Forse non lo sapremo mai, ma poco importa alla fine, poiché basti dire che fu un successo coi fiocchi e controfiocchi. Dopo essersi goduto il meritato riposo del campione, reduce dalla snervante esperienza kubrickiana di Eyes Wide Shut (1999), lo zio Tommy torna a bussare di gran carriera alle porte della Paramount, reclamando, com’è giusto che sia, un doveroso sequel. E via che si ricomincia, stavolta sotto l’occhio impazzito e ipercinetico di quel cavallo pazzo di John Woo, con a disposizione ben 125 milioni di cucuzze.
Nel maggio 2000 (in Italia solo a luglio), lo spericolato agente Hunt, accompagnato da una title track rap-rockettara all’ennesima potenza, partorita dai Limp Bizkit, esordisce inerpicandosi nientemeno che su di una scoscesa parete rocciosa del deserto dello Utah – sempre rigorosamente on stage –, mentre il mondo intero trema sotto la minaccia di un pericolosissimo agente biologico infettante denominato “Chimera”, sbandierato ai quattro venti dall’invasato Sean Ambrose (Dougray Scott). Calci, pugni e tafferugli sono pronti all’uso, senza la ben che minima esclusione di colpi. Con 546 milioni d’incasso planetario e il terzo posto assicurato al Box Office, subito dietro a Cast Away e Il Grinch, possiamo tranquillamente affermare e confermare che Mission: Impossible II ha spaccato di brutto. Allora perché fermarsi proprio sul più bello? Poiché, come si sul dire, “non c’è due senza tre”, il progetto di un ulteriore seguito viene subito messo in cantiere, ben presto destinato, però, a trasformarsi in uno snervante calvario lungo o ben sei anni. All’alba del 2002 la Paramount si reca alla corte di David Fincher, fresco fresco del successo di Panic Room, per affidargli la sacra sedia di regia dell’ancora acerbo Mission: Impossible III. Dopo un’iniziale partenza alquanto promettente, tuttavia, il cineasta manda a quel paese la Wagner e compagnia a causa di presunte divergenze di sceneggiatura (si vocifera addirittura di un mitologico script R-Rated), costringendo i capoccioni dello studio a ripiegare su Joe Carnahan. Ma, si sa, quando il destino ha le palle girate non c’è santo che tenga. E così, dopo l’ennesima sola, lo zio Cruise decide di tagliare la testa al toro e di chiamare in causa il giovane amico J.J. Abrams, efant prodige della serialità su piccolo schermo 2.0, tuttavia ancora vergine in ambito cinematografico, reduce dalla fortunata collaborazione coi fidi Alex Kurtzman e Roberto Orci per le sceneggiature di Lost e Alias. Ed è così che l’imberbe J.J. si ritrova, quasi per gioco, al timone di un giocattolone da 150 milioni di dollari nel quale il sempreverde agente Hunt se la scorrazza di brutto fra Città del Vaticano – che poi, in realtà, è la Reggia di Caserta, ma chissene! –, Berlino e Shanghai, al fianco di attoroni del calibro di Philip Seymour Hoffman, Simon Pegg e Laurence Fishburne, mentre elicotteri, bombe a mano ed esplosioni abbondano che è un piacere, per la felicità di grandi e piccini. E anche stavolta, come dicono a Roma, “amo fatto er botto!”, con 397 milioni d’incasso globale (qualcuno ai piani alti si è persin permesso di storcere il naso… ma si puo’??!!) e il settimo posto ipotecato al Box Office 2006. Non manca proprio nulla, nemmeno succulenti easter eggs, disseminati un po’ ovunque da Abrams e compagnia, destinati allo zoccolo duro dei fan di Lost.
Alea iacta est, ormai, poiché la macchina del successo ha già da tempo fatto sentire l’invitante sferragliare dei suoi ingranaggi, tanto da indurre l’asse di ferro Cruise-Wagner a interpellare, in maniera quantomeno sorprendete, un personaggetto come Brad Bird – esperto animatore Pixar dietro al successo di Ratatouille e Gli Incredibili – per dare inizio alle riprese di Mission: Impossibile – Protocollo Fantasma, in assoluto il capitolo fino ad allora più dispendioso (ben 150 milioni di dollari) e decisamente più esaltato. Messo in campo quanto di meglio l’industria dell’entertainment ha da offrire agli albori del 2011 e puntando al massimo sull’allettante promessa dello sboronissimo IMAX, stavolta il figacciotto Hunt ha di che star sveglio la notte, soprattutto dopo che Cremlino salta in aria come una scatola di petardi a Capodanno, generando un’inaspettata escalation politica che trascina il mondo intero sull’orlo di un ennesimo annunciato olocausto nucleare, il tutto mentre la IMF è vittima di un inatteso smantellamento. Inutile dire che 694 milioni d’incasso globale bastano e avanzano per trasformare questo quarto capitolo del colpaccio più remunerativo dell’intera serie, spingendo ancora una volta i capoccia che contano a investire nuovi dollaroni in uno scontato quanto ambizioso proseguo che, stavolta, vede il buon Tom collaborare col fidato amico cineasta Christopher McQuarrie (uno che l’azione e il bordello li ha decisamente nel sangue), con cui aveva già spremuto sangue e sudore per dar vita al vivace cuginetto di Ethan Hunt, ovvero l’ombroso Jack Reacher (2012). Vedendo il nostro simpatico cinquantenne palestrato appeso (per davvero!) a un mastodontico Airbus A400M in fase di decollo, senza la ben che minima ancora di salvataggio, stavolta s’intuisce fin da subito che ogni possibile ritegno è venuto a mancare, una sensazione che si trasfigura pian piano in realtà dopo che l’amico Fritz si tramuta in un campione olimpico di apnea che farebbe le scarpe perfino ad Aquaman, incassando una tale sacca di legnate che persino Dave Bautista sarebbe corso in cameretta a piangere dalla mamma con la coda tra le gambe. Ma Mission: Impossible – Rogue Nation non è certo un film Neorealista, sia perché di realistico ha soltanto il sacchetto della spazzatura, sia perché 682 milioni d’incasso Rossellini e compagni non li avrebbero mai visti in vita loro nemmeno col telescopio, dimostrando ancora una volta che, alle soglie del 2015, una saga nata cinquant’anni prima dalla scoppiettante mente di piccolo autore televisivo con tanta passione e pochi lilleri, è tranquillamente in grado di trascinare gente davanti al grande schermo, per giunta senza aver mai scontentato più di tanto un pubblico sempre fedele e appassionato.
Si sa, d’altronde, che mano a mano che gli anni passano e l’artrite inizia inesorabilmente a farsi sentire, il buon vecchio Zio Tom ama circondarsi di persone fidate e con cui si trova a proprio agio, proprio come un vecchio nonno con i suoi freschi nipotini. Pertanto, non stupisce affatto che alla guida del nuovo attesissimo Mission: Impossible – Fallout, in uscita americana a fine luglio (in Italia al termine di agosto), si faccia di nuovo vivo quel simpaticone di McQuarrie, impegnato, ancora una volta, a tenere a freno lo spericolato Tommy bello, stavolta in prima persona alla guida di un elicottero fuori controllo in volo sui tetti di Parigi, senza farsi mancare nemmeno un bel lancio in paracadute a oltre 350 chilometri all’ora. Se le premesse sono queste, non serve certo lo stuzzichino dell’IMAX 3D per farci correre a frotte al cinema, felici e beati nel vedere il nostro fido Ethan rischiare per l’ennesima volta l’osso del collo e uscirne più vivo e vegeto che mai. Almeno lui, a differenza del fratellastro Bond, quando ci si mette, mani, pedi e camicie se le sporca per davvero!