Sharp Objects – Stagione 1
2018
Sharp Objects è una serie tv del 2018, creata da Marti Noxon.
“Don’t tell mama”. È su queste tre parole che si chiude – scene post credits a parte – la miniserie Sharp Objects, creata da Marti Noxon per HBO e tratta dal romanzo omonimo di Gillian Flynn. Tre parole che tornano più volte nel corso della stagione e che assumono maggiore significato solo alla fine, diventando quasi emblema della serie stessa. Sharp Objects è la storia di Camille Preaker (Amy Adams), reporter di cronaca nera, tormentata e autolesionista, costretta a tornare nella sua città natale, Wind Gap, per indagare sulla scomparsa di due ragazzine. Ben presto, scopriamo che la donna ha un passato traumatico e difficile alle spalle e un rapporto altrettanto travagliato con la madre Adora (Patricia Clarkson), potente matriarca che sembra avere il controllo dell’intera cittadina. Con queste premesse – e topoi annunciati –, il rischio di cadere nel prevedibile era dietro l’angolo. Eppure, la serie è molto lontana dai thriller più canonici: racconta di donne complesse, imperfette, danneggiate, pericolose, con una regia ed estetica sempre raffinata ed elegante, anche nei momenti più cruenti e orrorifici. Uno dei punti di forza di Sharp Objects è indubbiamente il lavoro fatto da Jean-Marc Vallée (regista e montatore), il quale confeziona un prodotto dallo stile personale e riconoscibile, supportato da una colonna sonora sublime. Lo show non è perfetto: dopo l’ottimo avvio di stagione e alcuni episodi centrali più deboli (a livello di scrittura), la serie riprende quota soprattutto nel finale, con due ultimi episodi ad altissima tensione.
Perché se da un lato si dà ampio spazio a cliché e situazioni prevedibili, dall’altro non mancano ribaltamenti improvvisi, colpi di scena inattesi e terrificanti che spiazzano lo spettatore. Sharp Objects è in definitiva una serie ermetica, misteriosa, che sa giocare con la suspense, con le parole e i non detti; ma anche con le immagini, improvvise, fulminee, che oscillano costantemente tra presente e passato. Tra ricordi dolorosi e segreti indicibili. Le donne, dicevamo, sono le protagoniste indiscusse di Sharp Objects. Camille, interpretata da una superba Amy Adams, è una donna solitaria, spezzata, dipendente dall’alcool e ancora troppo ripiegata sul passato, segnato dalla morte prematura della sorellastra Marian. Su di lei incombe la figura materna di Adora, una madre severa, castrante, fredda, incapace di superare la morte della figlia e ossessionata dalle apparenze e dalla perfezione. E poi c’è Amma (Eliza Scanlen), figlia di Adora e sorellastra di Camille, una ragazza difficile, ribelle ed egocentrica, che di giorno indossa la maschera della figlia perbene e di sera dà libero sfogo al suo carattere, tutt’altro che docile. Si tratta di tre personaggi affascinanti, scritti ottimamente, tre generazioni che portano avanti ricordi, vissuti e storie diverse ma simili, strettamente legate agli eventi più grandi che colpiscono Wind Gap.
Una cittadina opprimente, conservatrice, malsana, specchio di una società che ingabbia parimenti uomini e donne, e punisce chi viola le regole morali e non si conforma agli stereotipi di genere. Ma trasgredire – segretamente e non – è l’unico modo per non soccombere, nel tentativo di fuggire al perenne senso di angoscia e claustrofobia, palpabile in numerose scene. Sharp Objects è una serie sui segreti ma anche sul senso di colpa, sulla frustrazione e rabbia femminile, che possono incanalarsi in forme di autolesionismo o abuso verso gli altri. Il trauma, la violenza generazionale e la malattia mentale sono tutti temi che la serie racconta, indaga e mette in scena con un’accuratezza, sensibilità e delicatezza viste raramente sul piccolo schermo – si pensi al corpo segnato e tormentato di Camille, ripreso con uno sguardo inedito, attento e mai morboso. La miniserie si chiude con un finale spietato, feroce e macabro, che rimescola le carte in gioco e lascia spazio ad ampie riflessioni: su come sia difficile fuggire al passato e impedire che esso si ripeta, e su quanto siano sbagliate e dannose le etichette e gli stereotipi. La frase “Don’t tell mama” allora non è solo la flebile richiesta di mantenere nascosto l’ennesimo segreto ma il tentativo di non calare la maschera, rompere le convenzioni e distruggere le apparenze. Quelle di una società-matrigna che non ammette diversità né aberrazioni. E non accetta che il male può veramente annidarsi ovunque.