Into the Dark – Down
2019
Down è il quinto episodio della serie televisiva Into the Dark, diretto da Daniel Stamm.
L’episodio di San Valentino di Into the Dark, il quinto della serie, conferma due cose, principalmente: primo, le festività servono solo come base di partenza; secondo, la qualità è buona ma potrebbe essere anche migliore. Stavolta il timone passa di mano al tedesco Daniel Stamm, regista del brutto L’ultimo esorcismo e del buon 13 Sins, che con Down si approccia ad un thriller sul confronto tra sessi. Come il Claudio Verona di The End? L’inferno fuori, due impiegati rimangono bloccati nell’ascensore del grattacielo dove lavorano. Jennifer e Guy, questi i loro nomi, non si sono mai visti e si rendono presto conto che non usciranno presto da lì, visto che gli uffici resteranno chiusi per le feste. Segregati e costretti all’interno del box, i due cominciano a conoscersi, confidarsi, infine piacersi e consumare un rapporto sessuale nel loro luogo di prigionia. Tuttavia una terribile sorpresa aspetta Jennifer, ignara di chi sia veramente Guy e delle sue intenzioni: stavolta l’inferno è dentro l’ascensore.
Il colpo di scena che rompe l’idillio arriva a neanche metà puntata: la volontà di Kent Kubena, qui esordiente sceneggiatore e precedentemente produttore, tra gli altri, di Turistas e del remake Black Christmas, è dunque quella di rifiutare il whodunit per creare un confronto carnefice-vittima molto più complesso. All’interno dell’ascensore, Kubena fa emergere i due personaggi in maniera approfondita, così come l’evoluzione del loro rapporto, basato su menzogne e inganno. Se infatti “Guy” si finge qualcun altro per arrivare all’obiettivo di far infatuare Jen di sé, quest’ultima non è esente da colpe, avendo usato lo sconosciuto incontrato in ascensore per dimenticare qualcun altro. L’ambiguità della coppia prosegue, mostrando Jen (Natalie Martinez) come la più forte e “Guy” (Matt Lauria) come il più fragile. Un punto di vista che però non ha la dovuta messa a fuoco nel momento in cui lo scontro va per risolversi. Il problema è che ci potrebbe essere stata una mancanza di coraggio, o se si vuole essere più schietti, la paura di non risultare pienamente politically correct su un argomento oggigiorno insindacabile. E visto che anche chi scrive è cosciente della facilità con cui si può essere fraintesi, ciò che segue deve essere visto come un mero giudizio sulla sceneggiatura in oggetto e non su una purtroppo infinita casistica di violenze sulle donne, la cui ignobiltà è fuori discussione.
Perché, d’accordo, questa è una storia dove non ci sono mostri ma solo deboli e difettosi esseri umani. Tuttavia non si può non rimanere un poco delusi dalle potenzialità inespresse dello script, capace di ampliare l’ascensore da microcosmo d’azione a macrocosmo simbolico dei pericoli annidati dietro ogni relazione, ma non sufficientemente da renderlo unico teatro di questo interessantissimo dramma. L’attenzione scema tremendamente nella seconda parte, così come le idee si fanno sempre più forzate, tanto da dover ovviare con la scelta dello spostamento di luogo. Succede dunque che la regia di Stamm, seppur quadrata, non viene esaltata da un racconto altrettanto solido, che evidenzi la diversità sociale tra i due protagonisti e le implicazioni che essa ha sulle azioni dei personaggi. Delle due l’una: o la bilancia pende in favore di uno, o rimane in perfetto equilibrio, dando infine la colpa più al contesto che agli attori che vi recitano. Attraverso questo cerchiobottismo, il finale, con quel ghigno di compiacimento per l’atto violento appena perpetrato, non ha proprio senso.