Più buio di mezzanotte
2014
Più buio di mezzanotte è un film del 2014, diretto da Sebastiano Riso.
Davide è un quattordicenne di Catania, una creatura rinascimentale dai lunghi capelli rossi ed un aspetto androgino inviso al caparbio Massimo, suo padre. E’ silenzioso, vuole cantare e sogna una libertà che gli viene negata. Il suo aspetto acerbo mostra tutta la fatica dell’adolescenza, è consapevole di sé e del fatto di potersi esprimere solo in soffitta, lontano dagli occhi ingiuriosi di suo padre. Rita, sua madre, bacia le cinghiate paterne per guarirle, ma nulla può rispetto all’ostilità del marito che non vuole un figlio arruso ed è disposto a “curarlo” con iniezioni di machismo. Il giovane è stanco, non può più subire questa violenza e decide di scappare via. Più buio di mezzanotte racconta il dramma di chi è ripugnato proprio dalla terra che lo ha generato, di chi non ha alternative alla strada, di chi è costretto a cercare altrove il proprio cammino. Il tema del film non è soltanto legato all’omosessualità, ma si collega a quello della famiglia e alle sua fragilità. Davide è un cane randagio, è temuto e al tempo stesso intenerisce, è abbandonato da chi non lo accetta, per questo scappa e si rifugia nell’agglomerato omosessuale di Villa Bellini che raccoglie i respinti e gli arresi. Vagabondo e affamato, cerca protezione in un gruppo di ragazzi borderline, insieme ai quali galleggerà solo su una pozzanghera di Sebastiano Riso, con questo suo primo lungometraggio, percorre una realtà quasi del tutto priva di metafore esponendo, senza ostentarlo, un personaggio gracile nel suo coraggio, interpretato dal bravo Davide Capone, al tempo stesso pericoloso – per l’onore del padre – e bisognoso d’aiuto – a sostegno del viversi secondo ciò che è.
Queste caratteristiche ricordano il duro e coinvolgente romanzo di Roberto Paterlini, Cani Randagi, 2012. Esattamente come il libro, il film esprime il peso della censura e della consapevolezza e dipinge la medesima e inesorabile difficoltà dell’amare. Lo script mette insieme avventura e dramma esistenziale, fuga e dolore, come epitome della vita di Davide Cordova, reale ispiratore della pellicola. La sceneggiatura, più televisiva che cinematografica, riferisce bene l’inadeguatezza di un ragazzo dal corpo in divenire, con tutte le inquietudini dell’adolescenza. Ci scaraventa nel suo viaggio e, con l’espediente del ricordo, colora l’infelicità di chi medita il suicidio, come il Mastroianni de Una giornata particolare (Ettore Scola, 1977). Nonostante i tempi, il cambiamento della società che il cinema riesce a raccontare è tragicamente fiacco. Il suicidio è un pensiero dal quale ci si astrae attraverso la distrazione della vita che è rappresentata da Antonietta nel film di Ettore Scola e dalla voce del padre ne Più buio di mezzanotte. Sebastiano Riso racconta una tragedia col pudore delle fiabe, ha il merito di filtrare, attraverso un gioco di luci e ombre, la bruttura della corruzione. Gli amici di Davide rappresentano personalità spinose, costrette purtroppo ai margini della trama – oltre che della vita.
Il regista riesce con distacco a raccontare tutta la debolezza di una cultura bigotta nei confronti del diverso da sé, in questo caso perché omosessuale – ma potrebbe trattarsi di un disabile o di uno straniero. E’ coerente alla sua idea di denuncia, ma apparecchia in modo imperfetto una narrazione che incespica nella difficoltà di rendere scorrevole una vicenda declinabile – e a tratti declinata – in diverse sfaccettature psicologiche, alcune delle quali appena accennate. L’imperfezione, generalmente considerata un punto di forza cinematografico, diventa debolezza quando appare dettata dalla difficoltà di raccontare molto in soli 96 minuti. Cuoce troppa carne sulla stessa brace e genera fumo che lascia insoddisfatti, elemento che ricorre nel suo ultimo lavoro, Una famiglia (2017). E’ sicuramente un regista da non trascurare e che il tempo ci consentirà di studiare meglio. Simbolico e commovente, poi, è l’uso che viene fatto della musica, altra grande protagonista del film, assieme ad una Catania che mostra le sue viscere viziose, lontana da quella che Brancati descrive ne Il bell’Antonio, 1949. Catania non appare più come una donna vestita di nero, ma come un caleidoscopico complesso di colori e suoni che canticchia “per quanto buio il buio sia, di tutta questa vita mia, senza guardare me ne andrei tranquilla, tanto non cadrei per quanto il mondo sia paura, paura io non avrei più”.