Incubi
Gli universi narrativi, ambienti condivisi in cui personaggi si muovono nella stessa ambientazione a cui mettono mano diversi autori, non sono niente di nuovo, specie negli anni in cui costruzioni come l’MCU, il Marvel Cinematic Universe, scuotono i botteghini a ogni nuovo film. Se, tuttavia, creazioni di questo genere sono oggi operazioni commerciali pianificate con grande cura, ci sono casi in cui la creazione è semplicemente cresciuta superando da sé i confini della mente del proprio creatore per germinare nell’inconscio altrui crescendo fino a prendere vita propria. Il caso di H.P. Lovecraft è emblematico.
Prima ancora che personaggi, luoghi e storie, a espandersi dall’inconscio dello scrittore di Providence all’inconscio collettivo è un senso di orrore sui generis, ignoto quanto schiacciante, tanto oltre la portata dell’umana comprensione da essere reale e al tempo stesso inconcepibile. Michele Penco, con Incubi, non è certo il primo a misurarsi con un mostro sacro come Lovecraft, non di meno lo fa con uno stile personale e interessante, una voce narrativa tutta sua che riesce a inserirsi nel solco lovecraftiano catturandone con efficacia il mood cupo e opprimente.
La narrazione trova il suo punto forte in un’atmosfera febbrile raccontata da un segno grafico iper dettagliato che emerge da una scala di grigi tanto compatta che quasi se ne sente il peso. Eppure, Penco mostra poco, l’essenziale, ma quel poco che fa vedere colpisce dove il lettore si sente a disagio. Un tributo breve, sentito e incisivo che onora la tradizione.