Child’s Play: la saga della bambola assassina
Chucky vuole ancora giocare
Ammettetelo, avete già messo un cerchio sul calendario? Preso atto che dal 19 giugno tutto ripartirà da capo, chi non ha mai avuto una certa fascinazione per La bambola assassina? Quella di Chucky è forse la saga horror più multiforme degli ultimi tempi: un viaggio di andata e ritorno nel perturbante suono di passi di un essere che non dovrebbe muoversi o parlare. Don Mancini lo concepì al calare della presidenza Reagan, in quel periodo edonistico dominato dal mantra “compra, consuma, obbedisci” che Carpenter riportò a caratteri cubitali in Essi vivono. In quello stesso anno, 1988, cominciò l’incubo del bambolotto da tutti desiderato, al cui interno si nascondeva però il Male assoluto. Per questo, la prima trilogia, figlia del successo che l’originale ottenne a furor di popolo, ha come contorno quella precisa atmosfera sociale. Non è un caso che il secondo ed il terzo capitolo trovino la loro conclusione rispettivamente in una fabbrica di giocattoli e in un parco divertimenti, con Andy Barkley a rappresentare l’unico simbolo di cassandrica coscienza in un mondo incapace di riconoscere il proprio declino.
Chucky tuttavia stava già cambiando: i panni di villain sovrannaturale iniziavano a stargli un pochino stretti. Si intuiva, già al naturale calare della trilogia, un sempre più acceso e piccato senso ironico intorno alla sua minuscola figura. La stessa ironia del cinema horror americano anni ‘90, autoreferenziale e consapevole, come Craven mostrò rimettendo mano a Nightmare ed intraprendendo l’avventura di Scream. Inizia così la seconda vita di Charles Lee Ray, con l’ingresso in scena della diabolica moglie Tiffany (Jennifer Tilly). La sposa di Chucky rimane tuttora l’apice di una saga che, come il suo protagonista, si rifiuta di morire. L’horror non ne risente, anzi è più debordante ed estroso, ma Chucky intrattiene anche senza armi in mano, come quando giustamente osserva di non aver bisogno di protezioni anticoncezionali di plastica essendo già totalmente ricoperto di essa. Oppure quando si ritrova a dover eiaculare in un bicchiere per inseminare Jennifer Tilly (quella vera, che interpreta sé stessa) ne Il figlio di Chucky, che in realtà, tradotto dall’originale, è proprio Il seme di Chucky. Due capitoli apocrifi e folli che raccolgono però al loro interno, in un gioco di continue citazioni e riferimenti, l’intera storia del genere ed abbattono completamente, nello spirito del tempo, la parete dello schermo.
Ma Chucky, come ben sappiamo, non è assente da molto tempo. Dopo essersi messo direttamente in cabina di regia nel Seed, Don Mancini ha deciso, negli anni ‘10 del Duemila, di donare alla sua creatura una terza esistenza. Un ritorno all’horror più tradizionale, senza però lasciare totalmente per strada od omettere quel pazzo intermezzo. La maledizione di Chucky e Il culto di Chucky sono contraddistinti dagli spazi chiusi, in cui il malefico bambolotto può muoversi e nascondersi senza problemi. La voce di Brad Dourif è sempre ciò che il pubblico attende di più, così come il rinnovato meccanismo del protagonista non creduto dagli altri. Chucky ormai è simbolo di sé stesso, tutto ruota intorno a lui ed in sua funzione. Attraverso incastri e rientri dalla prima trilogia, i due capitoli che definiremo celebrativi sono la giusta conclusione, amara e catartica, di una saga che non ha mai voluto essere tale. Ecco perché questo reboot, al netto di tutto lo scetticismo che certe operazioni portano con sé, può essere l’ennesima occasione per produrre nuovi stimoli e nuovi temi. Diciamo tutti insieme: “Ade Due Damballa, give me the power, I beg of you!”.