Scary Stories to Tell in the Dark
2019
Scary Stories to Tell in the Dark è un film del 2019 diretto da André Øvredal.
Il racconto di formazione fantastico con protagonisti ragazzini in bicicletta si è ormai affrancato dalla facile definizione di “operazione nostalgia”. Gli anni ’80, a ben guardare, non sono neanche più veramente necessari (e infatti Scary Stories to Tell in the Dark si svolge nei primi ’70): bastano quattro adolescenti, larghi viali alberati di provincia, e una serie di sfide sovrannaturali con cui confrontarsi in un percorso di crescita. Come il western o l’hard boiled all’inizio del secolo scorso, quello creato più o meno involontariamente da Stephen King e la Amblin quarant’anni fa è un vero e proprio “mondo”. Non più un filone. In virtù di ciò, non è del tutto giusto far pesare al film patrocinato da Guillermo del Toro il tono derivativo dell’operazione. It, Stranger Things, Piccoli brividi: il listino di “influenze” l’hanno citato tutti, ma parlare di exploitation è forse pretestuoso. Se il film di André Øvredal (precedentemente autore dell’horror obitoriale The Autopsy of Jane Doe) tratto dalla saga young adult dell’orrore scritta da Alvin Schwartz – influenza primaria sulla ben più fortunata serie di R.L. Stine – somiglia ad altre opere, è perché ha rinunciato a distinguersi. E’ un lavoro ormai consapevole del proprio passatismo, che sceglie di confrontarsi apertamente con la propria eredità. L’unico modo in cui è ormai possibile cimentarsi con un materiale di partenza così universale.
Lo scheletro su cui Scary Stories To Tell in The Dark manda in parata i suoi mostriciattoli è dunque labile e intercambiabile, come il B-movie horror impone. Ci sono dunque quattro ragazzetti della Pennsylvania, che in una notte di Halloween si avventurano nella casa “stregata” della contea per sfuggire ai bulli del liceo locale. Troveranno un libro (scritto con il sangue, nientemeno), ricco di spaventose storielle di paura. Storielle, come impareranno presto, molto più “reali” di quanto potessero immaginare. Accettato che far scontare la propria prevedibilità al film di Øvredal non ha più senso che contestare la ripetitività di un Saw, è chiaro come un prodotto così smaccatamente commerciale (PG-13, Halloween, protagonisti assortiti in laboratorio e evidenti ambizioni da franchise) vada analizzato in relazione ai suoi epigoni più diretti. Di buono, quasi ottimo, Scary Stories ha quindi la componente horror. Dettaglio non è esattamente marginale. Quanto questi “racconti paurosi” vanno a perdere nell’ovvio confronto con It (personaggi, densità, complessità), il film lo riacquista a sorpresa con un campionario di mostri assolutamente degni di nota. In questo, il derby con il rivale di Muschietti è vinto a sorpresa dal team di del Toro: mille volte più orripilanti questi mascheroni analogici e carnali, rispetto ai pigri ghirigori digitali di Pennywise. Pur scontando una pesante eredità con le storiche illustrazioni di Stephen Gammell, le grottesche immagini di Harold o della Pale Lady sono roba forte, al limite dell’instant cult.
Ciò che invece avrebbe necessitato decisamente maggior cura, è il contesto umano di riferimento. Qui, la colpa finisce allo script di Dan e Kevin Hageman. Il genere del “fantasy con ragazzini in bicicletta”, perché come abbiamo visto di Genere si tratta, è diverso dallo slasher o dallo zombie movie. Rispetto a queste sottocategorie, serenamente costruite sulla macelleria liberatoria, in questo caso sono i personaggi a contare di più: e la loro capacità di sovrapporsi al ricordo d’infanzia dello spettatore è molto importante. I quattro ragazzi di Scary Stories sono trasparenti, insulsi; e seppur animati da blandissimi quanto vaghi traumi passati, non vengono mai portati a confrontarsi con il proprio punto di rottura, e con la crescita che ne dovrebbe derivare. Nixon, il Vietnam, il sottinteso razzismo del New England e persino l’immenso Dean Norris vengono sprecati, lasciati ai margini come carta da parati di una storia che si vorrebbe adulta ma è solamente tirata via. Con in testa l’idea esplicita di avviare una saga, Scary Stories to Tell in the Dark cade in un errore che la Blumhouse o il Conjurinverse non avrebbero mai commesso: anteporre gli attori all’orrore. Ma gli ingombranti protagonisti sono insignificanti, e i bellissimi mostri finiscono messi da parte. In questo, con un terzo del budget e senza muovere un dito, l’Annabelle 3 di Dauberman e Wan rimane un’altra categoria.