#iostoacasa: esorcizza la paura con Nocturno
Pandemia - Guida al cinema (anti)batterico - Capitolo 5: il morbo alla tua porta
#iostoacasa e leggo Nocturno – Pandemia – Guida al cinema (anti)batterico – Capitolo 5:
IL MORBO ALLA TUA PORTA
Uno degli aspetti con i quali il cinema della pandemia deve necessariamente fare i conti è il “dopo”. Eppure i film sul post-epidemic non sono poi così tanti. Di imprescindibile c’è la serie cult inglese I sopravvissuti, inventata da Terry Nation e trasmessa dalla BBC a partire dall’aprile 1975. E proprio Terry Nation, nel suo romanzo – pubblicato da noi prima dalla Sperling & Kupfer (1978) e poi, in tascabile, dalla Bur (1980) – riassume in tre definizioni gli ingredienti base della zuppa:
PANDEMICO: Generale, Universale. In particolare dicesi di malattia che si diffonde in un intero paese, o in un intero continente o in tutto il mondo.
SOPRAVVISSUTO: Rimasto in vita dopo la morte di un altro o di tutti gli altri.
SPERARE: Aspettare un bene con vivo e fiducioso desiderio. Confidare, lusingare. Non vedere l’ora che qualcosa di auspicabile accada.
Si parte quindi dalla malattia. Ma la malattia è quasi sempre una premessa per raccontare altro. Per raccontare la speranza. In Right at Your Door (Chris Gorak, 2006), ad esempio, non si capisce neanche bene con cosa si abbia a che fare. Si sa che nel centro di Hollywood un attacco terroristico ha sprigionato un qualche gas dai non bene identificati effetti. Per precauzione la gente si chiude in casa, blinda porte e finestre con nastro adesivo isolante e si ferma ad attendere. Attendere spasmodicamente che qualcosa succeda. Ma non succede niente. Fino a quando alla porta di casa di Brad (Rory Cochrane) si mette a bussare la moglie Lexi (Mary McCormack) uscita presto per andare al lavoro. Da qui il dilemma: aprire e rischiare di venire infettato o guardare morire la propria moglie dal vetro di una finestra? Right at Your Door non soddisfa pienamente i postulati del genere ma la dice lunga sulle paure post 11 settembre e sull’istinto di sopravvivenza. Una sopravvivenza ad oltranza anche quando gli ideali e i sentimenti crollano di fronte agli occhi. Come succede al padre e al figlio che attraversano un paese che non è più un paese in The Road (John Hillcoat, 2009), il travagliato film tratto dal best seller di Cormac McCarthy. Qui non si parla chiaramente di pestilenza pandemica, si sa solo che il mondo come lo conosciamo noi non esiste più. La popolazione è stata decimata e i pochi superstiti vagano per una desolata landa tutta uguale alla ricerca di cibo e calore. Sono sopravvissuti in una Terra sconosciuta, orfani senza casa di una società che ha finito per fagocitare se stessa. Non c’è speranza in The Road ma solo l’accanimento di un essere umano sempre più simile a un animale che non vuol rendersi conto di essere già estinto. Tutt’altro discorso per Carriers, apocalittico film di due giovani registi spagnoli (i fratelli Pastor, Alex e David) che hanno fatto bingo in America.
L’unico che assolve appieno tutti i requisiti richiesti. C’è la malattia, che si manifesta come una specie di influenza emorragica. Ci sono i sopravvissuti, due fratelli e le loro fidanzate, e c’è la speranza di una spiaggia da raggiungere dove vivere felici e sicuri. Ma c’è anche il viaggio. E il viaggio nasconde mille sorprese e insidie. I quattro danno un passaggio a un padre con una bambina infetta. Non è un atto compassionevole ma il bisogno di impossessarsi del loro pick-up. Pick-up che si premurano di sigillare adeguatamente prima di ospitare i legittimi proprietari nel vano posteriore. Appena possono si sbarazzano di loro ma una ragazza viene infettata. Non lo dice agli altri del gruppo e rischia di mettere in pericolo il resto del cammino. Ma lungo la strada altri drammatici avvenimenti attendono i nostri amici… Carriers è un vero survival movie in cui i personaggi si modificano e imbruttiscono di fronte a un mondo che è regredito. Un microcosmo ostile in cui le leggi si sono sovvertite. In cui uccidere per il cibo diventa una necessità. In cui i sentimenti vengono messi a dura prova dalla malattia. In cui i fratelli uccidono i fratelli e l’egoismo primeggia. Perché l’alternativa che resta è solo la morte o la speranza utopica di una spiaggia che probabilmente non c’è. Perché è l’ecosistema a essere cambiato. C’è da chiedersi se sia un virus a ucciderci o se siamo noi a essere diventati batteri per il sistema immunitario del Mondo. Si cambia completamente registro nell’interessante The Dead Outside (Kerry Anne Mulligan, 2008). Nella grigia campagna scozzese April vive da sola fino a quando Daniel conclude la sua fuga per mancanza di benzina quasi di fronte a casa sua.
Non c’è affetto tra i due ma diffidenza, perché “fuori” chiunque può essere stato infettato da un non precisato virus e quindi preda di furiosi attacchi di furore. I “rabbiosi” sembrano vagare senza meta e senza scopo. Non è chiaro se siano antropofagi né se siano conciati così a causa di esperimenti o furia distruttiva della natura che cerca di liberarsi del parassita uomo per mezzo di anticorpi propri. Fatto sta che sono pochi a «far finta di essere sani», per dirla con Gaber. April e Daniel intrecciano lentamente un rapporto, e April sembra riuscire a superare quello che deve essere stato una passato doloroso e oscuro. Parlare di routine sembra una forzatura in queste condizioni, ma proprio quando una parvenza di normalità sembra instaurarsi tra i due giunge a bussare alla porta Kate, anche lei in fuga non si sa bene da chi, né diretta dove. Perché il vaccino sembra inutile? Ci sono dei portatori sani? Chi è April? Cosa c’è la fuori? Alcune domande riceveranno una risposta, altre rimarranno insolute. Ma non è questo quello che conta… The Dead Outside funziona come uno zombi-movie (infezione, fuga, assedio) ma l’attenzione è tutta rivolta alle relazioni tra i due sopravvissuti. Per alcuni aspetti siamo molto vicini al fumetto The Walking Dead di Kirkman e Tony Moore, nel quale i morti fanno solo da sfondo. Il malessere è palpabile, le atmosfere sono sature di nervosismo al punto giusto, senza però scadere in facili brividi che tanto paiono piacere ai registi horror di ultima generazione. Non è un capolavoro sia chiaro, ma una dignitosissima opera prima che lascia ben sperare in futuri sviluppi. Nasce dalla mente di Kerry Anne Mulligan, che ne firma anche la regia, e di Kris Bird, anche direttore della fotografia. La produzione è intermente indipendente, il film ha girato alcuni festival del circuito fantastico nel 2008 ricevendo ottime recensioni, ma purtroppo non ha avuto ancora una distribuzione degna (in Italia, poi, non l’ha comprato ancora nessuno).