High Life
2018
High Life è un film del 2018 diretto da Claire Denis.
Molto spesso dimentichiamo come la fantascienza sia stata per tanti autori e per tanti decenni un genere altamente simbolico e stratificato, in cui l’ambizione di esplorare mondi e situazioni al di fuori della portata esperibile camminava mano nella mano con la scoperta di aspetti profondi e inconsci della natura umana, venuti a galla proprio nella messa a prova del proprio rapporto con il reale. È forse uno degli strumenti creativi più vicini al senso della religione, con cui la fantascienza, intesa nell’accezione più visionaria e intimista dell’approccio al genere, tralasciandone quindi il lato più puerile e spettacolare, condivide la funzione di illuderci di poterci far vedere, se non metterci a contatto, con il noumeno delle cose. La scelta della canadese Claire Denis, finora a suo agio nella linea autoriale drammatica, di utilizzare in High Life un viaggio nello spazio verso un buco nero – progetto che covava da quindici anni e che aveva scritto in inglese perché sentiva che il francese non poteva essere la lingua parlata nello spazio – per raccontare la sua visione della collocazione dell’essere umano all’interno del grande progetto divino, diventa quindi pienamente coerente con questa linea di pensiero, discendente dalla grande fantascienza cinematografica di 2001: Odissea nello spazio o di Stalker e filtrata da un cinismo e una brutalità insospettabili. In un racconto in cui passato, presente e futuro si alternano continuamente, facendo perdere facilmente la bussola della continuità temporale a favore di una sensazione di universalità dell’assunto narrato, abbiamo Monte (Robert Pattinson, all’ennesimo ruolo maiuscolo) come unico punto di riferimento.
Lo vediamo compiere delle riparazioni su un’astronave mentre cerca di intrattenere la figlia, ancora molto piccola. Entrambi sono rimasti soli, superstiti da una catena di eventi, da un’escalation di violenza in cui i suoi compagni, una manica di criminali offertisi volontari per un esperimento scientifico, sono inevitabilmente precipitati. Lo scopo della missione è ufficialmente quello di avvicinarsi abbastanza a un enorme buco nero e provare a utilizzarlo come fonte di energia, ma la dott.ssa Dibs (Juliette Binoche) sfrutta il lungo tempo per compiere esperimenti sulla riproduzione, costringendo i prigionieri a non avere rapporti sessuali e a raccogliere il proprio sperma in una camera per la masturbazione, dove la Dibs compie i propri rituali a cavallo di un enorme fallo di metallo. Le radiazioni a cui i passeggeri sono sottoposti impediscono però di poter avere figli, ma la perseveranza da sciamana dello sperma della dottoressa Dibs hanno infine successo e la giovane Boyse (Mia Goth) viene fecondata con successo con lo sperma, prelevato a sua insaputa, di Monte. L’ambiente chiuso, le forti dosi di sedativo, la privazione del sesso e, di conseguenza, la meccanizzazione di ogni sentimento deflagrano in tentativi di stupri e violenze che finiscono per eliminare tutto l’equipaggio, mettendo Monte sotto il cono d’ombra del dubbio se tutto quello che stanno facendo abbia veramente uno scopo.
Come nella migliore fantascienza quindi l’aspetto prettamente scientifico (il buco nero, la riproduzione senza contatto) è un viatico per parlare della natura umana e del fine ultimo della propria esistenza, a cui la Denis fin da subito dà una lettura pessimistica, senza speranza: gli esperimenti, la missione, sono solo dei giochi senza un motivo, senza uno scopo e da questo assunto sembra voler illustrare un contraltare al misticismo della religione che tutto può giustificare e chiarire. Il mistero che la Denis racconta, e che si concentra principalmente nel rapporto tra padre e figlia, riguarda il bisogno dell’uomo di trovare un motivo per vivere, quasi che la natura umana sia geneticamente programmata per autodistruggersi, andando inconsapevolmente verso il vortice dell’apocalisse. L’abisso esistenziale in cui l’uomo precipita viene raffigurato in High Life con una serie di immagini cupe, criptiche e fortemente simboliche, in cui l’elemento razionale si sfilaccia, sfugge dalle maglie della logica per dare spazio alla parte dionisiaca dell’esperienza umana, perfettamente rappresentata dal personaggio interpretato dalla Binoche (che sostituì Patricia Arquette), emblema di un elemento femmineo affamato di vita e allo stesso tempo misterioso e spaventoso per l’uomo, alle prese con le due facce della medaglia della vita e della morte.