Intervista a Luciano Cáceres
L'attore argentino racconta il set di El Nido, horror psicologico diretto da Mattia Temponi
Nocturno incontra l’attore Luciano Cáceres, protagonista di El Nido, film horror diretto da Mattia Temponi che usa il genere per narrare qualcosa di profondo sull’animo umano.
Parlami del tuo personaggio
Il mio personaggio è Ivan, un volontario in questo momento particolare di pandemia mostrato in El Nido. Ha una missione, ha perso la sua famiglia, e risiede in questo rifugio ideato per salvare coloro che sono stati infettati. Con lo scorrere del film, conosceremo la sua storia, il suo passato, perché è qui, è qual è la sua missione specifica nei confronti del personaggio di Blu. Senza rivelare il finale, andremo a scoprire qual è il vero interesse di Ivan all’interno di questa trama. E’ una sorpresa, non posso raccontarlo; però si, questo va a contribuire con il thriller e il mistero della storia. Piano piano si scoprono alcune informazioni per poi cucirle nel filo della storia e capirne l’insieme.
Senti di avere qualcosa in comune con Ivan?
Con Ivan non ho niente, niente in comune. Però lui racconta il suo legame con sua figlia, e io sono padre di una bambina e quindi, nel ricorrere a questa immagine di paternità, mi viene facile anche capirla, in quanto è una mia priorità.
Dato che non hai niente in comune, ti chiedo se Ivan è una persona che ti piace, c’è qualcosa che vorresti avere della sua personalità?
Prima di tutto, non vorrei usare un luogo comune del tipo “ognuno di noi ama il proprio personaggio”, però si, è necessario capirlo per poterlo interpretare e trasmettere. Quello che succede nel film è un momento molto particolare a causa di una pandemia; questa follia e questa clausura costruiscono già una forma d’essere. È molto difficile stare molto tempo rinchiuso in un posto e appaiono, così, gli aspetti migliori e peggiori delle persone nell’isolamento e nella convivenza. Questo viene mostrato nel film.
Qual’è stata la scena più difficile che hai girato, o la più intensa?
Guarda, delle scene credo che quella che abbiamo girato oggi è stata una delle più forti, perché veniamo a conoscenza di qualcosa del passato di Ivan, del suo passato più umano e non solo del servizio del suo volontariato in questo “nido”. Però, abbiamo girato anche diverse scene molto fisiche, molto violente e caotiche a causa del virus e del protocollo, cioè come toccarsi o non toccarsi con la compagna di scena. Per la finzione non per un vincolo reale! Che esige tutta una verosimiglianza creata per poter raccontar la storia.
Visto che mi parli di queste scene violente, voi avete fatto un percorso di preparazione?
No, no. O meglio, si, per alcune scene che vengono dopo, però per quelle che abbiamo girato fino ad ora no. Ci mettiamo d’accordo col regista, l’attrice e ovviamente il DOP. È il nostro direttore della fotografia che ci guida, e ci comunica ciò che è necessario, perché molte volte è più importante, ad esempio, la tensione nella mano, più che un gesto grande e visibile. Si lavora molto minuziosamente con le inquadrature.
In Argentina hai lavorato già molto..
Molto, molto. Sono 32 anni che faccio l’attore. Circa 30 film, molta televisione e più di cento opere teatrali. Ho iniziato a 11 anni questo mestiere.
Beh, da sempre quindi!
Da tutta la vita.
Mentre qui, in Italia, è la tua prima volta?
No. Lavorando, si. Ho potuto fare una miniserie, una versione di “Sin tetas no hay paraíso” che diresse Maurizio (Simonetti ndr), aiuto-regista di questo film, e anche un film con Lola Ponce che era una versione di Cenerentola, su come nasce una stella, una cantante che vuole raggiungere l’obiettivo della fama. Questi due lavori sono in italiano, ma girati in Argentina. E poi, molte serie che ho girato in Argentina arrivate anche qui, come Il mondo di Patty e altre cose. In Italia ricevetti, per un film, il premio internazionale di Milano come miglior attore. Quindi, si, varie volte ci sono stati legami con l’Italia.
E ti è piaciuta come esperienza, quella del cinema italiano?
E’ un sogno per me, è un sogno che sia realizza. A cinque anni, mio padre mi mostrò Vittorio Gassman, ho sempre sognato di venire a girare qui. Il giorno che iniziammo con le nostre prove mi cadde la scheda tecnica, mi si riempirono gli occhi di lacrime e lì ebbi il ricordo di mio padre che mi diceva: “questo è Vittorio Gassman”, anche il mio nome è Vittorio, è Luciano Vitorio, quindi fu come una regressione a 37 anni fa, immagina. La post-produzione di questo film si fa a Cinecittà. Sandro, uno dei produttori, mi ha portato a Cinecittà e lì ho potuto fare dei giri. Un sogno che si realizza, molto apprezzato.
Com’è stato, invece, lavorare con Mattia e Blu, qual’è il tuo rapporto con loro?
Meraviglioso! Abbiamo iniziato via Zoom, non ci conoscevamo di persona, però dal primo giorno abbiamo trovato una chimica molto particolare, tutti abbiamo capito la direzione in cui andava questo progetto. Ci siamo messi d’accordo molto velocemente e non abbiamo quasi mai avuto discussioni o lunghi discorsi a proposito di una scena. È stato più un: “facciamo questo, facciamo quest altro?” “si, andiamo”. E si fa. Molto impressionante, come se ci conoscessimo già da tempo, e non solo sul set ma anche amichevolmente, fuori. Possiamo condividere un pasto. Sono molto grato per la cura che riservano nei miei confronti, Nando, ad esempio che mi passa a prendere, mi accompagna, mi aiuta con la spesa; Jamila, che è argentina, questa attrice formatasi alla scuola municipale di arte drammatica dell’Argentina, che quindi non svolge solo il lavoro di interprete, ma ha anche la capacità di comprendere il lavoro dell’attore. Sono molto grato.
Foto in copertina di Emanuela Scarpa