Lockdown all’italiana
2020
Lockdown all’italiana è un film del 2020, diretto da Enrico Vanzina.
Insegna Seneca: Ignoranti quem portum petat nullus suus ventus est. Per dirla in maniera meno metaforica, è inutile cavalcare un’onda quando non si sa neanche dove si vuole andare a parare. Lockdown all’italiana, sin dal suo annuncio, è stato subito attaccato per l’opportunismo con cui ha voluto affrontare uno degli avvenimenti più drammatici della nostra storia e l’ha piegato alle logiche e necessità della commedia. File di intellettuali dei social che si stracciavano le vesti hanno già dato il loro contributo con la solita, cogliona, domanda: si può fare commedia sulla pandemia? Sì, grazie per aver partecipato. Ritornando alla massima senechiana, l’opportunismo non ha però creato opportunità, sia perché probabilmente non ce n’erano, sia perché le idee erano nebulose ed improvvisate. Il debutto alla regia di Enrico Vanzina diventa quindi un oggetto astratto, sicuramente non filmico e ricco di spunti estemporanei e pleonastici quasi quanto il film stesso. Questa è matematica: moltiplicare per zero porta ad un unico risultato.
Ai fatti abbiamo due coppie (Greggio-Minaccioni, Memphis-Stella), una ricca e una povera, entrambe in crisi per via di un tradimento ma costrette a rimanere insieme dal lockdown. Ovviamente la natura pressoché istantanea del progetto riduce il tutto ad un dramma in interni dove i personaggi si lasciano andare ad animati dialoghi ma anche a lunghi soliloqui. Il ritmo è assente, così come le battute sono assolutamente buttate lì con distratta convinzione. Innaturali alcuni e monocordi altri, ma poco importa visto che il problema è più grande della semplice inadeguatezza di uno o più interpreti. Tutto è lento e debole: non per un problema di velocità quanto di vera e propria obsolescenza. La comicità è obsoleta, in parte incolpevolmente, poiché già anticipata e doppiata da mesi di infiniti contenuti social e televisivi, ma comunque stantia. Siamo ancora nell’Italia delle palazzine, dove si consumano adulteri sempre più goffi ai danni delle solite tardone nevrotiche e dei sempiterni bambacioni di mezz’età. Siamo ancora ai cummenda milanesi a Roma che fanno avances ai limiti del penoso a giovani e procaci dirimpettaie col q.i. di un blocco di cartongesso. Siamo ancora ai “mortacci tua, neh, ocio, bischero, guagliò”, come se il dialetto da solo basti a far comicità.
Salvo che poi non si vada sul vago, a cavallo tra il voler far ridere o meno: mossa, questa, che usa solo chi sa di non aver fatto niente, che si tratti di alleggerimento spirituale dinanzi alla tragedia o di seria catarsi per la coscienza collettiva. Lo schermo televisivo è forse il vero protagonista del film, o almeno quello più espressivo: i personaggi guardano i telegiornali, la D’Urso ma anche film come I nuovi mostri di Risi, La terrazza di Scola ed il vanziniano Sapore di mare. La continuità, che sia accettata o meno, è servita, così come l’auto-incoronazione di Vanzina ad erede, non solo biologico, della commedia all’italiana. È forse attraverso questo gioco di omaggi che il regista prepara, si fa per dire, il finale del film, ossia l’uscita dal confinamento e la risoluzione delle vicende. Volendo probabilmente dire la sua sull’adagio di quei mesi “Ne usciremo migliori”, Vanzina sposa il pessimismo e il grottesco dei nuovi “vecchi” mostri, pensando di chiudere un cerchio, non si sa se intorno al genere o alla sua carriera. Gli italiani, questa è la tesi, non sono mai cambiati. E non è cambiato neanche il modo di raccontarli, purtroppo.